Manlio Cammarata repoprter Manlio Cammarata reporter - Archivio 2006-2013

Televisione

Cerchiamo di risalire alle origini dei problemi di ricezione

Interferenze televisive tra geografia e politica 

Il passaggio al digitale terrestre ha posto rimedio solo in parte al caos dell'etere nato prima del 1980. Sta per diminuire il numero delle frequenze disponibili per la televisione, aumenteranno i problemi per gli utenti.

16.04.12

I problemi del digitale terrestre hanno due cause principali: la geografia e la politica. Tutte e due non vanno d'accordo con la tecnica. Vediamo perché.

1. La geografia. Il nostro territorio è in gran parte montuoso. Come ormai tutti sanno, nelle bande radioelettriche usate per la televisione terrestre i segnali viaggiano in linea retta, cioè non scavalcano i rilievi. Per questo la copertura di tutta la Penisola richiede molti trasmettitori, ciascuno dei quali serve un'area più o meno limitata (per dare un'idea: in analogico la Rai raggiungeva il 98 per cento della popolazione usando circa 6.500 impianti).

Ma due trasmettitori non possono usare la stessa frequenza in aree adiacenti: interferiscono, si disturbano a vicenda. In alcuni casi vince il più potente, in altri si notano disturbi, in altri non si vede nulla. Con il digitale la questione si complica e si semplifica nello stesso tempo: o un segnale arriva abbastanza "pulito", perché l'interferenza è al di sotto di un certo livello, o non si vede nulla. La situazione intermedia, fatta di "squadrettature" del video e interruzioni dell'audio, equivale di fatto a non vedere nulla.

Dunque, se in Lombardia si usa il canale 30, questo non dovrebbe essere usato né in Piemonte, né in Veneto né in Emilia-Romagna. In pratica, per coprire tutto il territorio nazionale senza interferenze, in ogni area si può usare un terzo delle frequenze disponibili. Che sono 8 in VHF e 48 in UHF, in totale 56. Significa che in ogni area non se ne possono usare più di 18 o 19. Ma, come tutti sappiamo, ci sono zone in cui trasmettono decine e decine di emittenti locali, oltre ai network nazionali.

In analogico è semplicemente il caos. Quello iniziato alla fine degli anni '70, con le emittenti che si disturbavano a vicenda e i relativi problemi di ricezione per gli utenti. Il passaggio al digitale poteva essere l'occasione per mettere ordine senza penalizzare nessuno. Infatti su ogni frequenza, al posto di un canale analogico c'è un apparecchio (multiplex, MUX per gli addetti ai lavori) che può trasmettere più canali (quattro all'inizio, almeno sei oggi, grazie a una tecnologia più avanzata). Quindi, sulle diciotto frequenze disponibili in ogni area, si potrebbero trasmettere 108 canali senza problemi. Invece è ancora il caos, con centinaia di emittenti che si ricevono (o non si ricevono...) nelle stesse zone.

2. La politica. Questa situazione è il risultato di tre scelte assurde compiute dal legislatore. La prima risale alla legge n. 66 del 2001, che ha consentito il "trading delle frequenze". Cioè la facoltà per ogni operatore di cedere ad altri tutta o parte della capacità trasmissiva di cui dispone. Si deve ricordare che le frequenze sono un bene pubblico limitato, il cui uso viene "concesso" alle emittenti per un tempo determinato. Alla scadenza della concessione, questa può essere rinnovata, oppure le frequenze ritornano nella disponibilità dello Stato.

Insomma, gli operatori televisivi non sono "proprietari" delle frequenze che usano. Ma fanno finta di non saperlo. E ha fatto finta di non saperlo anche il legislatore: invece di assegnare "uno a uno" un canale digitale per ogni canale analogico, ha fatto uno scambio "uno a uno" con le frequenze. È la seconda scelta assurda. Così ogni operatore televisivo si è trovato a disporre di una banda sulla quale si possono trasmettere anche otto canali televisivi (sacrificando la qualità): è banda da "rivendere" ad altri operatori.

In ultima analisi, si è consentito ai privati di lucrare su un bene pubblico. Per la cronaca, si è tentato di ripetere il gioco con il "beauty contest" inventato dall'ex-ministro Romani a favore di Berlusconi: frequenze assegnate gratis, ma rivendibili dopo cinque anni (per altre considerazioni sul punto vedi Frequenze, il pasticcio che fa tremare il Governo, Frequenze all'asta in un caos lungo trent'anni e Sassano: non hanno seguito le indicazioni dei tecnici).

Se con lo switch-off si fosse assegnato un canale digitale per ogni canale analogico, sarebbe avanzato un grande numero di frequenze, utili per servizi diversi (in particolare per quelli in mobilità, sui quali le imprese di telecomunicazioni puntano molto). Ma che se ne fanno ora gli operatori della banda che non gli serve? Per adesso nulla o quasi: trasmettono in simultanea gli stessi programmi o cedono ad altri operatori la capacità trasmissiva che non usano.

Ma questa è solo la premessa: non ci sarebbero molti problemi se le frequenze fossero state assegnate rispettando il piano stabilito nel 2009, cioè tenendo conto della necessità di impiegare frequenze diverse in aree adiacenti. Invece in molte aree sono state assegnate tutte le frequenze disponibili: la terza scelta assurda. Il risultato sono le interferenze che si verificano tra emittenti che usano la stessa frequenza in aree adiacenti.

Non basta. Si sapeva da tempo che i canali dal 61 al 69, da sempre assegnati ai servizi televisivi, dovranno essere liberati e destinati ai servizi mobili. Lo ha stabilito il decreto-legge n. 34 del 31 marzo 2011. Ebbene, solo quattro mesi prima, nel novembre 2010, questi canali erano stati assegnati a diversi operatori televisivi. Che presto dovranno sloggiare.

Naturalmente dovranno essere risarciti. La solita storia all'italiana: le frequenze sono state assegnate con un'asta che ha spuntato la bella cifra di 4 miliardi di euro. Il 10 per cento di questa somma, 400 milioni, doveva servire a risarcire gli operatori televisivi obbligati a liberare le frequenze destinate ad altri usi. Ma ora sono diventati 175 e sono furiosi. Una sola cosa è certa: la liberazione delle frequenze da 61 a 69 aumenterà il caos.

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