Manlio Cammarata repoprter Manlio Cammarata reporter - Archivio 2006-2013
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Internet e stampa

Le responsabilità dell'informazione on line

12.04.01

Non si spegne la polemica sull'applicazione della legge 62/01 e sulla discussa obbligatorietà dell'assoggettamento dei siti internet alla disciplina della stampa scritta nel 1948.
Ne parliamo nell'articolo "L'iscrizione è condizione per l'inizio delle pubblicazioni". Qui cerchiamo di svolgere alcune considerazioni di carattere più generale, proseguendo il discorso iniziato pochi giorni fa (vedi E' finito il tempo delle corporazioni).

Ci sono due aspetti rilevanti che devono essere tenuti presenti nel discorso sul regime della stampa applicato all'internet. Il primo è costituito dalle contrastanti decisioni dei tribunali italiani, prima della legge 62, sulle richieste di iscrizione delle testate telematiche. Alcuni hanno negato che la legge 47/48 potesse applicarsi all'informazione on line, sulla base di fondate considerazioni sulla lettera della legge stessa. Altri hanno ritenuto, con motivazioni basate più sulla sostanza che sulla forma, di accettare le domande.
Il secondo aspetto da considerare è la diffusa visione "libertaria" dell'informazione telematica (vedi Non esiste più la distinzione fra produttore e fruitore dell'informazione) secondo la quale nella società dell'informazione non c'è più differenza tra chi dà e chi riceve l'informazione e quindi non ha neppure senso la qualifica di "giornalista", l'ordine professionale è un'assurdità e via discorrendo.

Altre considerazioni si impongono. Una delle più importanti riguarda il fatto che nella realtà dell'internet sono caduti i confini del territorio fisico. Quindi nascono complesse questioni di giurisdizione: alla domanda "dove si pubblica questo giornale?" la risposta può essere "nel mondo" e l'indagine sulla sua proprietà può condurre a entità economiche poste chissà dove. Con la conseguente inapplicabilità - per fare un solo esempio - delle norme italiane sulla trasparenza della proprietà editoriale (vedi La titolarità delle imprese editoriali).

Dall'insieme di queste e di tante altre osservazioni emerge una considerazione comune: la legge sulla stampa, già discutibile all'epoca della sua emanazione, è un rudere ingombrante. Tutto l'edificio costruito sulle sue fondamenta è da abbattere, perché non risponde più alla realtà di oggi.
Alla base di un nuovo ordinamento ci deve essere il principio della libertà di espressione, intesa in un'accezione la più ampia possibile, fino a esaminare la possibilità di riformulare l'articolo 21 della Costituzione. Scritto fra pesanti contrasti e sotto l'influsso delle precedenti norme censorie, esso appare limitativo nei confronti di altre, più lungimiranti formulazioni, dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (1790), all'articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948).

Adeguare ai tempi l'ordinamento della stampa comporta, come inevitabile conseguenza, anche l'aggiornamento delle regole sulla professione giornalistica, e in particolare della legge "corporativa" 69/63. Ma questo punto richiede particolari cautele, perché il diritto in gioco è un diritto "bifronte", come indica chiaramente il già citato art. 19 della Dichiarazione universale dei diritto dell'uomo:
Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere. (Lo stesso concetto è ripreso nell'articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea: Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera).

La Dichiarazione universale - che sembra prefigurare l'internet con mezzo secolo di anticipo - considera essenziale il diritto "di cercare e ricevere" idee e informazioni. La concreta attuazione di questo diritto può comportare, per logica estensione, qualche forma di tutela dell'individuo contro informazioni false o tendenziose. La realtà della Rete, come si è rivelata in questi anni, indica la necessità - o almeno l'utilità - di questa tutela.

D'altro canto fare informazione come attività professionale comporta una tutela ancora più forte del "diritto di non essere molestato per la propria opinione". L'informatore di professione può subire limitazioni, condizionamenti o persecuzioni legali limitative della propria autonomia. Nello stesso tempo ha responsabilità non indifferenti, come il controllo delle fonti o il dovere di rettifica, che non possono essere imposte all'informatore occasionale.
In passato l'attività sistematica di informare era subordinata all'esistenza di una struttura editoriale, fatta di capitali e organizzazione. Oggi, con l'internet, chiunque ha la possibilità di diffondere il proprio pensiero senza limitazioni economiche o organizzative, anche in forma anonima, e senza assumere alcuna responsabilità per le conseguenze derivanti dai suoi atti.

Dunque, ferma restando la libertà di espressione per chiunque, è necessario che il "ricevente" dell'informazione sia messo in grado di sapere se ciò che trova sulla Rete - o anche su una pubblicazione a stampa - è un'informazione in qualche modo "garantita", cioè se chi l'ha diffusa risponde delle conseguenze della pubblicazione, se - in linea di principio - ha controllato le fonti, se è obbligato a rettificare eventuali notizie non corrette. Questo è il punto essenziale.
E' molto discutibile che un sistema fondato sui registri dei tribunali, sui controlli di polizia e sulla cooptazione dei giornalisti all'interno della corporazione possa garantire i requisiti dell'informazione professionale, mentre impone limitazioni all'informazione non professionale, con pesanti sanzioni per chi eserciti questa attività al di fuori dei registri e degli elenchi dei tribunali e delle corporazioni.

E allora, quale può essere la soluzione? La risposta è semplice: basta immaginare una procedura di "assunzione di responsabilità" esplicita e verificabile, che preveda la sottoscrizione di un codice di regole vincolanti, per qualificare in modo inequivocabile l'informazione professionale.
Per quanto riguarda gli aspetti economici e la tutela del lavoro dell'informatore professionale, basta che egli dimostri che svolge questa attività in forma continuativa e che da essa ricava una quota significativa dei propri guadagni.
Pensandoci bene, è anche una soluzione molto più semplice di quella attuale. E ci sono gi strumenti tecnici per documentare in modo certo l'appartenenza di un fornitore di informazioni a un "albo" che indica l'avvenuta assunzione di responsabilità e quindi la qualifica, a tutti gli effetti, di "giornalista" o di "editore".

Se vogliamo, è una forma di "bollino di qualità". Ma non "concesso" da qualcuno, bensì "conquistato" con l'impegno personale e la coscienza professionale.
Nell'attuale quadro normativo, e nell'attesa di un sistema più adatto ai tempi, questa impostazione si può tradurre nel riconoscimento della facoltà - non nell'obbligo - di iscrivere una testata nel registro della stampa, con la conseguente accettazione delle responsabilità e dei doveri connessi a questo status, ma solo "in quanto applicabili".
Nessun adempimento, se non quello di "rendersi reperibile" per chi vuole continuare a fare informazione libera.

 

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