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Internet e stampa

E' finito il tempo delle corporazioni

09.04.01

Non si ferma la valanga di e-mail che commentano o chiedono spiegazioni sull'applicazione della legge 21 marzo 2001, n. 62, che sancisce - fra l'altro - l'equiparazione dell'editoria elettronica a quella tradizionale e obbliga all'iscrizione nei registri della stampa le pubblicazioni telematiche aggiornate con periodicità regolare (vedi i Messaggi dalla Rete).
Come abbiamo scritto più volte su queste pagine, la situazione è seria ma non... disperata. Perché la legge in questione è fatta così male che è facilissimo aggirarla: basta non uscire a intervalli regolari per ricadere nel semplice obbligo di inserire alcune indicazioni sull'autore e sullo "stampatore" del sito, invece che essere costretti alla non facile iscrizione nei registri dei tribunali (si veda il secondo articolo della serie Come essere in regola con le norme sulla stampa).

Ad aumentare la confusione che regna sull'applicazione delle nuove norme si è aggiunta l'intervista che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Vannino Chiti, ha rilasciato a Repubblica.it.
Secondo Chiti la legge sarebbe applicabile solo alle pubblicazioni professionali equiparabili ai giornali e si dovrebbe in ogni caso attendere un regolamento dell'Autorità per le garanzie.
Il primo punto non risponde al vero. L'articolo 1 della nuova legge nel primo comma dà una definizione molto vasta del "prodotto editoriale" e nel terzo dice semplicemente che a ogni prodotto editoriale si applicano, a seconda dei casi, l'articolo 2 o l'articolo 5 delle disposizioni sulla stampa del 1948. Non ci sono distinzioni tra informazione professionale o spontanea, né limitazioni a determinate forme di editoria.

Quanto al futuro regolamento dell'Autorità per le garanzie delle comunicazioni (probabilmente il sottosegretario si riferisce al futuro registro degli operatori di comunicazione, che chiama impropriamente "albo dei comunicatori") non si vede come possa modificare sia questa legge, sia quella del '48. E in ogni caso l'iscrizione nel registro, sulla base di un regolamento e in difetto di una specifica norma di legge, non può avere gli stessi effetti di quella effettuata nel registro della stampa costituito ai sensi della legge 47/48, in particolare per quanto riguarda le responsabilità penali e il divieto di sequestro delle pubblicazioni. Inoltre, come abbiamo già scritto, i presupposti per l'iscrizione nel registro della stampa sono diversi da quelli previsti per il registro degli operatori di comunicazione, sulla base di precise norme di legge.

A ben vedere, il sottosegretario Chiti usa la tattica introdotta dal suo collega Passigli per la questione dei nomi a dominio: difende un testo diverso da quello che risulta dalla Gazzetta ufficiale o dagli atti parlamentari.

Il vero problema è un altro.
In Italia il regime dell'informazione è governato in prima battuta da due leggi: la molte volte citata legge 8 febbraio 1948, n. 47, "Disposizioni sulla stampa", già portata diverse volte davanti alla Corte costituzionale per sospetta incompatibilità con l'articolo 21 della Costituzione, e  la legge 3 febbraio 1963, n. 69, che si intitola "Ordinamento della professione di giornalista".
Questa legge mantiene in vita la corporazione dei giornalisti costituita nel ventennio fascista, attribuendo all'Albo la facoltà di "cooptare" i nuovi membri attraverso l'istituto del praticantato o l'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti.

L'articolo 1 di questa legge definisce come giornalisti "professionisti" coloro esercitano in modo esclusivo o continuativo la professione di giornalista, e come "pubblicisti" coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita, anche se esercitano altre professioni o impieghi. Insomma, per dirla con le parole di tutti i giorni, i professionisti sarebbero "giornalisti a tempo pieno" e i secondi "giornalisti a tempo perso".
Ma la stessa legge stabilisce che per diventare professionisti si deve prima essere assunti da un editore con un contratto da "praticante", sicché si rivela "professionista" quello che di fatto è un dipendente, mentre il libero professionista deve accontentarsi della qualifica di "pubblicista", cioè di giornalista a tempo perso.

Se si combinano le disposizioni delle due leggi, si vede che per fare un giornale è necessario appartenere alla corporazione. Questa è la situazione, o meglio lo era prima dell'avvento del World Wide Web.
Infatti, da alcuni anni a questa parte, per fare un giornale o comunque diffondere le proprie idee, non è più necessario disporre di capitali e mettere in piedi complesse organizzazioni. Bastano un PC e quei pochi megabyte di "spazio disco" che qualsiasi provider mette gratis a disposizione dei propri abbonati. Chiunque può attuare di persona il dettato dell'articolo 21 della Costituzione: "Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".

Qui sorgono due problemi: il primo è che in questo modo l'informazione sfugge al controllo del sistema tradizionale, basato sulle intese tra la corporazione e le stanze del potere,  il secondo è che attraverso l'internet si possono diffondere notizie "false o tendenziose" o si possono commettere diversi atti illeciti (diffamazione, aggiotaggio, concorrenza sleale...) protetti da un certo grado di anonimato.
La legge 62/01 vorrebbe risolvere in un sol colpo i due "problemi" (ammesso che il primo lo sia...)  estendendo all'informazione telematica le regole limitative della legge 47/48 e, di conseguenza, quelle della 69/63. Quanto alle "provvidenze" per l'editoria, il sottosegretario Chiti dovrebbe cortesemente spiegarci quali testate telematiche - che non siano emanazione di editori tradizionali - possano avvalersene.

E' il caso di ricordare che in nessuna nazione democratica esistono disposizioni come quelle della legge del '48 - per non parlare degli obblighi di consegna delle copie alla polizia e ai tribunali - disposizioni frutto di difficili compromessi tra i membri dell'Assemblea costituente. Alcuni, infatti, proponevano norme ancora più limitative, maggiori possibilità di sequestri e il permanere di qualche forma di censura (si veda il bel libro di Paolo Murialdi La stampa italiana dalla liberazione alla crisi di fine secolo, pubblicato da Laterza).
Tutto questo non è compatibile con la società dell'informazione.

La legge 62 non tiene conto di un fatto essenziale: i concetti stessi di "informazione" e di "stampa" sono profondamente cambiati. L'estensione delle norme sulla stampa alle testate telematiche è molto problematica, come dimostrano le decisioni contraddittorie dei tribunali sulle richieste di iscrizione dei giornali on line (i due recentissimi provvedimenti del tribunale di Salerno sono un'efficace dimostrazione dell'incongruenza della legge del '48 con i periodici pubblicati sull'internet).

E' necessario riformulare tutto l'ordinamento dell'informazione.
Si deve partire dalla constatazione che oggi "siamo tutti giornalisti" e quindi stabilire per chi fa il giornalista come professione (sulla base della dichiarazione dei redditi, come in Francia) un quadro preciso di obblighi e di garanzie.
Si deve rivedere la natura dell'Ordine dei giornalisti, che qualcuno vorrebbe abolire e che invece potrebbe assumere un ruolo effettivo di garanzia della correttezza professionale di chi fa informazione.

Infine, ma questo è un discorso fatto troppe volte, si devono stabilire alcune semplici regole per consentire l'identificazione di chi immette contenuti nella Rete, per attribuire correttamente la responsabilità di eventuali atti illeciti.
Altrimenti si rischia di aumentare e rendere permanente il caos di questi giorni, che deriva semplicemente dal rozzo tentativo di applicare a una realtà completamente nuova le regole scritte per un mondo sorpassato, dove per diffondere le idee ci si doveva affidare a uno "stampatore" posto sotto la stretta sorveglianza delle forze di polizia.

 

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