Manlio Cammarata repoprter Manlio Cammarata reporter - Archivio 2006-2013

Televisione

Ripensare il ruolo e il finanziamento del servizio pubblico

Rai privata, niente canone: a chi conviene?

E' arrivato alla scadenza il consiglio di amministrazione di un servizio pubblico sempre più alla deriva. Ci sono questioni urgenti che vanno affrontate con decisione. Perché qualcuno non vuole nemmeno che si apra la discussione?

12.03.12

Di televisione non si discute. Lo dice il segretario del partito del signore delle televisioni. E per questo non va alla riunione con il Presidente del consiglio e i segretari degli altri partiti che sostengono il Governo.
Di televisione può occuparsi solo il Parlamento, dicono sempre i corifei del signore delle televisioni. Ma il Parlamento è in tutt'altre faccende affaccendato.

Il Governo si occupava di televisione (anche troppo) quando il capo del Governo medesimo era anche il capo della televisione. Conflitto di interessi e anche spregio della legalità, perché fin dal lontano 1975 la Corte costituzionale ha stabilito che deve essere il Parlamento ad occuparsi dell'emittenza pubblica, in quanto rappresentativo della comunità nazionale.

Ma il signore di cui parliamo non è più capo del governo e il controllo della televisione pubblica rischia di sfuggirgli di mano. Il mandato del "suo" consiglio di amministrazione della Rai scade tra pochi giorni. Nominarne un altro con le regole attuali è inaccettabile per l'ex-opposizione, anche se i mutati equilibri politici potrebbero determinare un cambiamento sostanziale.
Una riforma del servizio pubblico in tempi brevi non è pensabile. Occorre una soluzione immediata, che ponga fine allo squilibrio.

Al professor Monti, presidente del consiglio in carica, si attribuisce un progetto geniale semplicità: un ritocchino alla legge Gasparri, che riduca da nove a cinque il numero dei membri del CDA. Uno per ciascuno ai tre partiti dell'attuale maggioranza, così nessuno potrebbe lamentarsi. Gli altri due come legge Gasparri comanda: nominati dall'azionista di maggioranza, cioè il Ministero del tesoro, cioè il Governo 

Risultato: il controllo della Rai resterebbe nelle mani del Governo, in barba alla sentenza della Corte costituzionale. Ma il padrone della televisione privata non potrebbe più controllare quella pubblica. Insomma, il male minore, in attesa di una seria riforma dell'azienda pubblica.

Pubblica? Un momento. La privatizzazione della Rai è un ritornello che va avanti da anni. E' prevista anche dalla legge Gasparri. Ora gli inviti a privatizzare ritornano insistenti da varie parti. Da ultimo ci si è messa anche l'OCSE, non si capisce bene a quale titolo.
La questione è complicata, anche perché non è chiaro se si voglia semplicemente vendere Rai ai privati, oppure privatizzare il servizio pubblico, smantellando l'azienda di viale Mazzini.

Prima di tutto, però, si dovrebbe chiarire che cosa significa "servizio pubblico". Anche perché non si può più parlare solo di radio e televisione, ma si devono considerare i "media di servizio pubblico", secondo la formula introdotta dall'Unione europea. Da qui si deve partire per definire in che cosa consista la mission dei media di servizio pubblico e come debba essere finanziata.

Così si può affrontare il nodo essenziale della invocata privatizzazione: bisogna capire se la missione del servizio pubblico possa essere svolta da aziende che hanno una missione commerciale. Finanziate per questo con denaro pubblico. Un affare di proporzioni notevoli, che spiega perché ci siano tanti interessi verso la fine del servizio svolto da un'azienda di stato.

In tutto questo non è secondario il problema del reperimento delle risorse, oggi ancora legato al famigerato "canone". L'imposta più odiata dagli italiani, oggetto di polemiche demagogiche più che di discussioni costruttive.
A che cosa serve - o dovrebbe servire - il canone? A finanziare l'Isola del famosi o altri prodotti più adatti alle emittenti commerciali?
Evidentemente no.

Il compito del servizio pubblico, in una sintesi estrema e imprecisa, è fare un'informazione equilibrata e promuovere e diffondere la cultura nel senso più ampio del termine. Anche con programmi che non strizzano l'occhio ai grandi numeri dell'audience e che per questo non sarebbero mai prodotti dalla emittenza commerciale.
Quello che un tempo faceva la Rai, e che oggi fa solo in parte.

Programmi di servizio pubblico il cui costo non può essere sostenuto dalla pubblicità. Anzi, un vero servizio pubblico non dovrebbe avere la pubblicità, perché essa condiziona sempre, in un modo o nell'altro, la scelta dei contenuti. Quindi devono essere pagati dalla collettività. Come? Con il canone a carico di chi possiede un apparecchio televisivo, cioè praticamente di tutti?

Se il servizio pubblico fosse veramente tale, i cittadini potrebbero pagare una piccola "tassa sulla conoscenza", come pagano i contributi per il servizio sanitario nazionale o per il trattamento dei rifiuti.
Il canone legato al possesso di uno o più apparecchi televisivi è senza dubbio obsoleto.

Occorre un sistema più aderente alla realtà di oggi: se riscuotere una tassa da inserire nella dichiarazione dei redditi, o con l'addebito sulla bolletta della luce o in altro modo, è materia da discutere.
E' da discutere soprattutto il presupposto della tassa, dal momento in cui l'apparecchio tradizionale è solo uno dei tanti aggeggi che servono a ricevere i programmi, via etere o via filo.

Infatti spesso emerge la questione del pagamento del canone anche per tutti gli apparecchi che possono ricevere i segnali televisivi, dai PC da tavolo ai telefonini "smart". La lettera della legge (l'arcaico Regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246 - Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni, modificato per la televisione), appare chiara: "Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento".

Dunque anche il possesso di computer, smartphone, iCosi eccetera dovrebbe costituire il presupposto per l'obbligo di pagare l'imposta. Le polemiche divampano. La Rai, il 21 febbraio scorso, ha comunicato che non chiederà il pagamento del "canone speciale" per questi apparecchi (il canone speciale è quello dovuto da soggetti diversi dalle famiglie). Alcuni anni fa aveva detto la stessa cosa per il canone ordinario.
Ora la domanda è: un'azienda, sia pure pubblica, può disapplicare una legge dello Stato?

Naturalmente la risposta è "no". Ma è evidente che l'antico decreto legge non sta più in piedi, sia per il presupposto sia per il meccanismo di riscossione. E' una delle tante cose che dobbiamo discutere, se non vogliamo che il degrado del servizio pubblico raggiunga un punto di non ritorno.
Forse è per questo che qualcuno non ne vuole discutere.

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