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Internet e stampa

Cambiare le regole non significa abolirle

20.12.01

La lettera che Franco Abruzzo ha inviato a InterLex deve essere letta con attenzione, perché contiene tutti gli elementi per capire il punto di vista di una buona parte dell'establishment giornalistico. Per questo offre l'opportunità di una risposta articolata e il più possibile chiara. Eccola.

Caro Abruzzo,
cerco di rispondere punto per punto alle tue domande e alle tue osservazioni.

Oggi chi vuol diventare giornalista professionista deve farsi assumere da un editore. Questa soluzione ti va bene? Non è democratica, invece, la via universitaria?

Secondo me si cade dalla padella nella brace. Il vecchio sistema è intollerabile, io stesso ne sono vittima: dopo più di trent'anni di professione sono sempre "pubblicista", cioè faccio un altro mestiere, secondo l'articolo 1 della legge che dal 63 regola la nostra professione.
Ma l'università come unica via d'accesso è meno democratica di quanto sembra a prima vista: non fingiamo di non sapere che la norma costituzionale che afferma che "i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi" è una mera dichiarazione di principio che non trova riscontro nei fatti.

L'Ordine di Milano da 24 anni ha sperimentato con grande successo la strada della Scuola di giornalismo: abbiano "costruito" 540 giornalisti, che al 98% sono dipendenti di testate, tg e radiogiornali. Abbiamo rotto un monopolio. Il Consiglio ha riconosciuto centinaia e centinaia di praticanti di ufficio. Io stesso sono il primo praticante d'ufficio della piccola storia dell'Ordine.

E' vero, ed è un grande merito dell'Ordine lombardo. Fra l'altro, se la memoria non mi inganna, siete stati i primi ad aprire l'Albo ai foto e cine operatori, nei primi anni '70. Ma nel discorso c'è qualcosa che non quadra: se la laurea in giornalismo deve essere l'unica via d'accesso alla professione, allora si contraddice tutta la politica di apertura che fino a oggi è stata seguita a Milano.

... in Italia si accede per Costituzione alle professioni con un esame di Stato e che quella giornalistica è riconosciuta come professione dal Parlamento. O ritenete che quello dei giornalisti sia un mestiere?

Questo è un punto essenziale. Secondo te fare il giornalista è la stessa cosa che fare il medico, l'avvocato o il commercialista. Non sono d'accordo, per un motivo abbastanza semplice: questi hanno un rapporto personale con il loro cliente, che può subire gravissimi danni se il professionista non si comporta con correttezza o non è abbastanza preparato. E i loro ordini professionali sono posti a tutela dei singoli cittadini, oltre che dei professionisti che ne fanno parte.
Invece il giornalista ha come "cliente" il grande pubblico. Se sbaglia paga in termini di immagine professionale, prima che in termini disciplinari. Il giornalista troppo furbo, disonesto o incapace, vene automaticamente spinto ai margini del mondo dell'informazione.
Non dimentichiamo che, nell'attuale ordinamento, l'accesso alla professione non passa per un "esame di stato", ma per una "prova di idoneità professionale", che è un'altra cosa.

Inoltre, per una fuorviante imprecisione linguistica, in Italia il giornalista professionista non è un "libero professionista", ma un dipendente, mentre il vero "giornalista libero professionista", cioè quello che non dipende da un editore, non ha nessuna via per ottenere il riconoscimento del proprio status professionale: resta a vita "pubblicista", cioè uno che fa il giornalista come secondo o terzo lavoro, secondo il dettato dell'articolo 1 della legge del '63.
Questa è una delle anomalie che deve essere eliminata se si vuole adeguare la professione all'evoluzione della società. Perché una cosa deve essere chiara: se vogliamo ridisegnare la figura del professionista dell'informazione dobbiamo guardare alla società in cui viviamo, non a leggi o sentenze vecchie di decenni e senza alcun riferimento alla situazione di oggi.

L’eventuale abrogazione della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica comporterà questi rischi:
1) quella dei giornalisti non sarà più una professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge.
2) risulterà abolita l’etica professionale fissata oggi nell’articolo 2 della legge professionale...

Eccetera eccetera. No, caro Abruzzo, qui proprio non ci siamo. A parte il fatto che una molto ipotetica abrogazione delle attuali norme non sottrarrebbe i giornalisti alle leggi dello Stato, e quindi pagherebbero comunque eventuali eccessi o comportamenti illegittimi, l'eventuale abolizione dell'Ordine non determinerebbe il caos né la perdita delle tutele, perché l'ente pubblico sarebbe sostituito da altri organismi, con regole non molto diverse dalle attuali, ma che potrebbe essere anche più severe e più garantiste. Questo è un aspetto fondamentale della questione: nessuno chiede di abolire l'etica, la responsabilità, la qualificazione professionale. Né le garanzie che fanno da giusto contrappeso a questi oneri. Si tratta solo di non limitare il diritto di espressione di chi non è e non vuole essere un giornalista (come invece fa, confusamente, la legge 62/01 e come, in altro contesto, si proponeva la 47/48).
Anche le sentenze della Corte costituzionale, che tu hai citato in altre occasioni, si riferivano a un contesto ormai completamente superato.

Il problema è un altro. E' che nell'assetto della società che si sta sviluppando  anche in conseguenza della diffusione delle tecnologie dell'informazione non si può limitare a un ristretto gruppo di "addetti ai lavori" la facoltà di informare. Come scrive Andrea Monti, si deve distinguere tra chi ha il compito di fare informazione come attività professionale e chi vuole solo dare informazioni, senza alcuna intenzione di farlo per mestiere. E' necessario assicurare a questa moltitudine di persone il diritto di farlo liberamente, senza pastoie burocratiche e divieti legali.
Ed è necessario che chiunque voglia fare il "mestiere" di giornalista possa farlo, assumendosi le relative responsabilità, e con le relative garanzie.

Non dimentichiamo che esiste un'opinione diffusa, di cui dobbiamo tener conto, che dice "Grazie all'internet siamo tutti giornalisti" (vedi  Voglio anch’io il First Amendment di Giuseppe Attardi). Lo ha autorevolmente ribadito Derrick De Kerckhove, considerato l'erede di McLuhan, nel convegno di Pescara del 24 novembre scorso. Noi non siamo d'accordo con questa visione, della quale dobbiamo però considerare alcuni aspetti interessanti. E' importante discuterne.

Governo e Parlamento devono preoccuparsi di riformare le leggi sugli ordini e i collegi e di tutelare i saperi dei professionisti stessi, saperi che sono una ricchezza senza confini e una inesauribile fonte di progresso per la Nazione. Gli esami per l’accesso devono essere delegati a un altro soggetto (l’Università) anche per garantire il rispetto del principio costituzionale dell’imparzialità. Non possono essere i giornalisti a giudicare chi debba entrare nella cittadella della professione. Lo stesso discorso vale per gli avvocati e per le altre professioni regolamentate.

Sulle differenze tra la professione di giornalista e le altre regolamentate ho già espresso la mia opinione. Aggiungo che limiti troppo stretti all'accesso vanno contro l'articolo 21 della Costituzione. Sono questioni  importanti che devono essere affrontate e approfondite.
Per questo voglio avanzare una proposta: organizziamo un convegno "in campo neutro", dove si possano confrontare le diverse posizioni e cercare soluzioni utili. Invitiamo a partecipare tutti quelli che hanno qualcosa da dire e soprattutto i politici, che dovranno metter mano a nuove leggi dalle quali dipenderà il futuro della nostra democrazia. E dovranno farlo con cognizione di causa e seguendo un percorso trasparente, per non generare altri mostriciattoli come la 62/01.

 

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