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Sistema informazione

"Legge di sistema" o bavaglio sistematico?

28.07.02

Il messaggio sul pluralismo e l'imparzialità dell'informazione che il presidente Ciampi ha inviato alle Camere è stato accolto da un consenso quasi unanime. Consenso scontato, perché il testo afferma principi consolidati e rifugge da questioni critiche che potrebbero essere oggetto di polemiche.
A una prima lettura sembra che il Presidente della Repubblica abbia ben presente il quadro dell'informazione che si sta delineando da alcuni anni, con la digitalizzazione dell'intero sistema e la "convergenza" dei media in un sistema globale di comunicazione.

Infatti nel messaggio si invoca l'emanazione di una "legge di sistema": un'espressione entrata nel lessico politico corrente nel giro di pochi giorni, con la relazione annuale del presidente dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e l'affermazione del ministro competente "siamo già al lavoro in questa direzione".
Ma che significa "legge di sistema"? Sembra che al centro del discorso ci sia l'attuale universo televisivo con la prospettiva (ottimistica) del passaggio al digitale terrestre nel giro di pochi anni e la conseguente moltiplicazione dei canali disponibili. Quindi con la necessità di regole che impediscano la formazione di posizioni dominanti nel nuovo quadro mediatico.

Scrive il Presidente che la vigilanza del Parlamento, in coordinamento con l'Autorità di garanzia, potrebbe estendersi all'intero circuito mediatico, pubblico e privato, allo scopo di rendere uniforme ed omogeneo il principio della ''par condicio". E molti si dichiarano d'accordo con questa affermazione di principio.
Ma non dovrebbe essere difficile capire che in questo modo si blocca qualsiasi possibilità di realizzare l'imparzialità dell'informazione nel suo insieme, perpetuando ed estendendo all'intero sistema la tecnica di imbavagliamento dell'informazione non allineata, collaudata con successo ormai da molti anni.

In Italia la televisione pubblica è completamente nelle mani della maggioranza parlamentare, attraverso la Commissione di vigilanza, che rispecchia la composizione delle Camere, l'Autorità di garanzia, di nomina parlamentare, con il presidente indicato dal Presidente del consiglio e dal Ministro per le comunicazioni), e il consiglio di amministrazione nominato dai presidenti delle Camere. Il governo stesso influisce direttamente sulla televisione pubblica attraverso il Ministero delle comunicazioni.
Tutte queste autorità dovrebbero assicurare il "pluralismo dell'informazione". Quale pluralismo?

E' facile capirlo rileggendo tante recenti affermazioni di esponenti della maggioranza: "Noi faremo una televisione pluralista, mica faziosa come quella che ha fatto il governo precedente". E su quest'ultimo punto hanno in parte ragione. Ma, se dopo le prossime elezioni politiche quella che oggi è opposizione diventasse maggioranza, direbbe con la stessa sicurezza: "Noi faremo una televisione pluralista, mica faziosa come quella che ha fatto il governo precedente". E avrebbe a sua volta ragione. Forse, per assicurare un più compiuto pluralismo, manderebbe a casa qualche giornalista "fazioso" o addirittura "criminale" ben visto dalla maggioranza precedente...

Ma per realizzare il pluralismo è necessario aggiungere voci, non toglierne!
Quello che di fatto si realizza nel sistema attuale è un "pluralismo maggioritario", una contraddizione in termini se intende il concetto di pluralismo sostanzialmente coincidente con quello della par condicio, come fa il Presidente della Repubblica nel suo messaggio.

L'imparzialità - questa è la parola chiave - si può realizzare solo se tutte le parti interessate hanno uguali possibilità da far udire la propria voce. Altrimenti la maggioranza ha più forza comunicativa dell'opposizione, per semplice logica numerica, e quindi le pari condizioni non ci sono: la televisione è sempre espressione del Governo. In questo quadro il conflitto di interessi peggiora la situazione, ma non ne cambia la sostanza.
Dunque la proposta di estendere le competenza della Commissione parlamentare anche all'emittenza privata e, nell'ottica della convergenza, anche agli altri media potrebbe rivelarsi addirittura catastrofica per l'imparzialità dell'informazione. Si imporrebbe il "pluralismo maggioritario" all'intero sistema dell'informazione, relegando in una specie di riserva indiana ogni voce minoritaria, come nella TV pubblica di oggi. 

Pensiamo a che cosa potrebbe accadere nel momento di un'alternanza parlamentare: la televisione privata, oggi in buona parte controllata dal Presidente del consiglio e quindi nell'ambito della maggioranza, diventerebbe la televisione dell'opposizione. Accetterebbe l'ex presidente, come qualsiasi altro imprenditore privato, il controllo della maggioranza parlamentare sui contenuti dei programmi realizzati nello svolgimento della sua libera attività economica? E' impensabile.

La soluzione non può essere che in un consiglio di amministrazione formato da personalità indipendenti, nominato al di fuori delle logiche parlamentari, controllato da un comitato di garanti al di sopra di ogni sospetto. Difficile da realizzare, addirittura impossibile, se si considera il fatto che nessuna parte politica è intenzionata a rinunciare anche a una piccola parte del potere che il controllo parlamentare assicura anche alla minoranza del momento. Un'utopia, dunque, ma che deve comunque essere enunciata per amore della verità.

Ma non è tutto. Nel quadro futuro dell'informazione multimediale, regolata da un'unica "legge di sistema", il discorso del controllo sulla televisione da parte del potere di turno non può essere diviso da quello sull'informazione on line. Lo sviluppo della multimedialità è già visibile: pensiamo ai siti della Rai, quelli dei radio e telegiornali, o RaiNews24 o Rai.net,dove il confine tra l'internet e televisione e già difficilmente distinguibile. O ai siti dei giornali, in cui l'informazione cartacea si fonde con quella telematica (se i siti sono ben fatti).

Ebbene, la legge 62/01ha sostanzialmente posto l'informazione on line sotto il controllo dell'Ordine dei giornalisti, un ente pubblico che non ha mai dimostrato particolare indipendenza dai governi. Come ho più volte dimostrato su queste pagine, in punta di diritto, questa legge stabilisce che nessuno può pubblicare un periodico on line se non c'è un direttore responsabile iscritto all'Ordine (vedi, fra gli altri articoli sull'argomento, L'alternativa è tra giornalista e delinquente). Tutto il potenziale di libertà di espressione del pensiero che altrove è stato liberato dallo sviluppo dell'internet, in Italia è limitato dalle disposizioni sulla stampa emanate nel 1948. Il giorno in cui qualche magistrato decidesse di procedere contro i siti che non rispettano le disposizioni del terzo comma dell'art. 1, sarebbe una strage.

La previsione dell'art. 31 della legge comunitaria 2001 "deve essere reso esplicito che l'obbligo di registrazione della testata editoriale telematica si applica esclusivamente alle attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001, n. 62, o che comunque ne facciano specifica richiesta" non cambia la sostanza del discorso, perché non può riferirsi che al registro degli operatori di comunicazione, non all'iscrizione nei registri della stampa dei tribunali (vedi "Rendere esplicito", questo è il problema).

Intanto si prospetta una riforma dell'Ordine dei giornalisti che renderebbe ancora più rigida la selezione per ottenere il tesserino: per accedere all'esame - che ora è una prova di idoneità e si vuole trasformare in esame di stato - sarebbe necessaria una laurea specifica, come per fare il medico o l'avvocato (si veda il progetto di legge C.224). A sostegno di questa proposta si porta ora anche un discutibile parere del Consiglio di Stato, dove si afferma che l'equiparazione della professione giornalistica alle altre professioni regolamentate non è in contrasto con la normativa comunitaria. Si tratta per l'appunto di un "parere" giuridicamente non vincolante e che non esclude una soluzione diversa. Non di una "decisione", come afferma il documento preparato dalla commissione giuridica dell'Ordine dei giornalisti.

E l'Ordine , con il documento approvato il 4 luglio scorso, chiede a gran voce la blindatura dell'accesso, seguendo le indicazioni del solito da Franco Abruzzo (vedi Giornalisti nella Costituzione e accesso soltanto via università e Il disegno di legge "Abruzzo" presentato al Senato). Il presidente dell'Ordine lombardo si spinge ancora più in là, chiedendo addirittura una modifica della Costituzione in cui si affermi che "i giornalisti sono soggetti soltanto alla deontologia professionale" (cioè al di sopra dei giudici, che "sono soggetti soltanto alla legge". Così i giornalisti diventerebbero a tutti gli effetti il "quarto potere" dello Stato, trasformando in realtà una metafora di altri tempi e di altri luoghi(1).

Evidentemente a qualcuno sfuggono le fondamentali differenze tra le professioni regolamentate e quella giornalistica. In primo luogo è ben diverso il rapporto tra il cittadino e il "professionista": il cittadino ha un rapporto diretto con il medico, l'avvocato o il commercialista, senza poterne valutare direttamente le capacità. Gli ordini professionali, con la certificazione della preparazione del professionista e la sorveglianza del rispetto della deontologia, costituiscono l'unica difesa possibile. Invece il rapporto tra il cittadino è il giornalista è mediato dall'editore e dalla struttura commerciale: non si compera una notizia dal suo redattore, ma si acquista in edicola un prodotto industriale. In teoria si potrebbe raggiungere il risultato di proteggere il pubblico dalla cattiva informazione imponendo agli editori il rispetto di un codice deontologico.

Ma c'è un altro aspetto fondamentale: mentre per la preparazione di un medico o di un avvocato sono necessari anni di studio e di tirocinio, tutti sono in qualche misura capaci di raccontare fatti esprimere le proprie idee. E la Costituzione sancisce per tutti i cittadini il diritto di "manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", mentre si guarda bene dal dichiarare che tutti hanno il diritto di curare le malattie degli altri o di difenderli davanti al giudice! Questa è la differenza essenziale tra la professione giornalistica, per la quale solo in Italia esiste un ordine professionale, e le altre, che sono ovunque  regolamentate con strutture di questo tipo.

Un albo professionale dei giornalisti è indispensabile, per distinguere chi ha scelto l'informazione come "mestiere", e deve quindi rispettare certe regole e avere certe garanzie di indipendenza. Ma, tra le norme oggi in vigore e quelle che si vorrebbe fossero scritte, si cerca di costituire una "casta" inaccessibile, sotto la tutela dello Stato.
Così torniamo all'inizio: la libertà di espressione sancita dall'art. 21 della nostra Carta costituzionale è di fatto controllata dalla maggioranza parlamentare nel campo radiotelevisivo o da un ente di stato per l'internet e la carta stampata. In questo modo si realizza il "pluralismo maggioritario" e le pari condizioni sono irrealizzabili.

Nessuna voce sembra levarsi per sostenere idee così semplici. Forse la "vigilanza di sistema" funziona già, non occorre fare una legge per istituirla.

(1) "Voi siete il quarto potere" esclamò lo statista inglese Edmund Burke (1728-1797) rivolto ai giornalisti che lavoravano nella tribuna riservata alla stampa nel Parlamento. Per comprendere il valore della frase di Burke si deve ricordare che solo nel 1792 si erano definitivamente concluse le lotte per la libertà di stampa, iniziate in Inghilterra nei primi decenni del '600, e che nello stesso periodo si affermava la dottrina di Montesquieu della tripartizione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). Dottrina che ebbe sbocco nella Rivoluzione francese, quando con la "Carta dei diritti dell'uomo e del cittadino" del 1789 fu affermato anche che "La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo: ogni cittadino può dunque parlare, scrivere e stampare liberamente, salvo rispondere degli abusi di questa libertà, nei casi determinati dalla legge".

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