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Sistema informazione

Grande clamore per la condanna dei dirigenti della società

Sentenza Google. La Rete è davvero in pericolo?

Si devono aspettare le motivazioni, che saranno depositate entro tre mesi, per capire le ragioni di una condanna che sembra contraria alle norme sulla responsabilità dei provider. Ma non definitiva né vincolante per il futuro.
25 febbraio 2010
Tre dirigenti di Google condannati per la pubblicazione di un video nefando. Ma il Web è troppo grande perché la sentenza di primo grado di un tribunale italiano possa metterne in discussione la libertà o addirittura "l'esistenza come lo conosciamo", come ha detto la società americana.
Commentare una sentenza prima di conoscerne le motivazioni non è una buona abitudine. Tuttavia il gran clamore sollevato dalla decisione di Milano impone, se non altro, di mettere a fuoco i contorni della questione.
Come tutti ormai sanno, la vicenda risale al 2006: un atto di bullismo ai danni di un disabile, il filmato caricato su Google Video, la pronta rimozione da parte dei responsabili del sito. Che però non evita la denuncia e l'azione penale, giunta ieri al suo primo giro di boa.
La discussione ruota intorno a due questioni in apparente conflitto: la prima è il rispetto della persona umana, la seconda è la responsabilità del provider per contenuti illeciti immessi da un "destinatario del servizio". Sullo sfondo la libertà della Rete, poiché attribuire agli operatori la responsabilità penale per fatti commessi da altri può introdurre un'insidiosa forma di censura o semplicemente la cessazione di un'attività di grande rilevanza nella società dell'informazione.

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Vediamo prima di tutto le norme sulla responsabilità degli operatori. Gli articoli 14, 15 e 16 del decreto legislativo n. 70 del 2003 stabiliscono, in sintesi, che un "prestatore di servizi" non è responsabile per i contenuti immessi dai destinatari dei suoi servizi se si limita a fornire un mero supporto tecnico, senza intervenire sui contenuti stessi. O se li rimuove appena "viene effettivamente a conoscenza" del fatto che l'attività o l'informazione è illecita o o se riceve un ordine da un'autorità di sorveglianza.

Particolarmente importante, per il caso in questione, è il successivo art. 17. Esso esclude per i provider un obbligo generale di sorveglianza o la ricerca attiva di contenuti illeciti: il fornitore è civilmente responsabile solo se non provvede "prontamente", su ordine dell'autorità competente, a inibire l'accesso ai contenuti illeciti. Inoltre deve segnalare all'autorità giudiziaria attività o informazioni illecite delle quali venga a conoscenza e collaborare per l'individuazione dei responsabili.

I dirigenti di Google hanno ottemperato a queste disposizioni. Perché allora il processo e la condanna? Secondo il pubblico ministero ci sarebbe stata una condotta illecita nell'ignorare "l'obbligo di impedire l'evento" in relazione alla normativa sul trattamento dei dati personali. E questo in funzione degli interessi economici dell'impresa. Una tesi suggestiva, che descrive l'azienda americana come un predatore alla caccia di profitti (da pubblicità) a qualunque costo.

Qui dobbiamo fermarci, in attesa delle motivazioni. Dovremo capire le ragioni sulla base delle quali il giudice ha ritenuto di disapplicare le norme sulla responsabilità del provider. E quindi valutare i possibili effetti della sentenza sulle attività telematiche e sui social network in particolare.

Si deve comunque ricordare che nel nostro ordinamento una sentenza di primo grado non costituisce un precedente vincolante per i giudici che dovessero pronunciarsi su casi analoghi. Ricordate il processo di Modica, in cui un blogger fu condannato per "stampa clandestina"? Anche allora si levò un grande allarme per la libertà dell'internet (vedi Blog e stampa clandestina: aspettiamo la sentenza e "Stampa clandestina": una sentenza inaccettabile). Ebbene, solo tre giorni fa dal tribunale di Milano è arrivata una sentenza di segno opposto (ne parleremo, anche in questo caso, quando saranno depositate le motivazioni).

La sentenza Google comunque giustifica qualche preoccupazione, soprattutto a causa della brutta aria che tira, non solo in Italia, nei confronti dell'internet e del suo ruolo nella società. Significativo il commento alla sentenza del senatore Gasparri del PdL: "Con una sentenza esemplare il tribunale di Milano ha condannato alcuni dirigenti di Google in merito alla vicenda del ragazzo disabile insultato e picchiato dai compagni di scuola, il cui video e' circolato a lungo sul famoso motore di ricerca... Perche' Google non ha, infatti, vigilato e collaborato per rimuovere in modo tempestivo contenuti violenti? Ci auguriamo che, anche alla luce di questa sentenza, si ponga definitivamente il problema e si trovino tutte le soluzioni normative affinche' non si sottovaluti piu' l'importanza della vigilanza sui contenuti immessi in rete, oltre che sulla loro immediata rimozione".

I tentativi di attribuire ai provider il ruolo di "sceriffi della rete" non sono nuovi, anche per cause meno nobili dei diritti fondamentali della persona (vedi la "dottrina Sarkozy", con le disconnessioni forzate per presunte violazioni del copyright). In Italia c'è il recente "decreto Romani" che cerca di imbrigliare l'internet nelle regole della televisione, con l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nel ruolo di sceriffo. Sembra che il Governo abbia fatto marcia indietro su questo punto, ma il nuovo testo non è ancora noto.

Ma tutto questo passa in secondo piano di fronte al fatto che ha dato origine alla causa. La violenza di gruppo contro una persona debole, la vanteria nel pubblicare il terribile documento tra i "video divertenti"... Su questo dobbiamo riflettere e chiederci se tutti noi non abbiamo qualche colpa, per la quale non compariremo mai davanti a un tribunale della Repubblica. 

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