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Sistema informazione

Tra l'etica della comunicazione e il senso della professione

Il reporter non ha cuore. E neanche il pubblico

Scoppia una polemica su un'immagine in prima pagina: un uomo che sta per morire travolto dalla metropolitana. Il reporter doveva salvarlo? Non poteva. Ma i presenti che non sono intervenuti sono anche il pubblico che legge i giornali.

11.12.12

Il fatto. Il 4 dicembre il New York Post pubblica in prima pagina la drammatica immagine di un uomo che sta per essere travolto e ucciso da un convoglio della metropolitana, dopo che uno squilibrato lo ha spinto sui binari. L'immagine è stata ripresa da un fotografo free-lance che si trovava lì per caso.

La polemica. "Il fotografo doveva salvare quell'uomo, invece di scattare". "Il giornale non doveva pubblicare la fotografia". Queste le critiche che si spandono sulla Rete. Moralismo inutile, perché nessuno dei presenti ha cercato di fare qualcosa. Erano gente qualsiasi, quella che poi va a cercare "il sangue" sui giornali. Ma la vicenda richiama la questione sempre aperta dell'etica dell'informazione, ripresa su queste pagine proprio qualche giorno fa da Ercole Tagliaferri in Estetica dell'omicidio.

Una semplice analisi della foto rivela due aspetti che non possono essere trascurati: il primo è che il fotografo non aveva alcuna possibilità di salvare l'uomo, almeno nei momenti che si possono immaginare prima dello scatto. Avrebbe corso lui stesso il rischio di essere travolto, perché sollevare di peso una persona in pochi istanti richiede lo sforzo sincrono di due uomini molto robusti.

Il secondo aspetto è che, con ogni probabilità, il fotografo ha ripreso altre immagini, ben più drammatiche, subito dopo quella che è oggetto della polemica. Ma il giornale non le ha pubblicate, almeno in prima pagina, esercitando un'opportuna autocensura.

Ma resta il problema di capire qual è il limite, se un limite c'è, nella ripresa e nella pubblicazione di immagini dal forte impatto emotivo, che possono suscitare reazioni sgradevoli in chi le guarda. Disgusto, raccapriccio, terrore sono sensazioni che molti provano nel vedere fotografie - e video - che documentano fatti tragici. Non si devono pubblicare?

Per rispondere si deve prima di tutto si deve tenere presente che la pubblicazione di un'immagine su un organo di stampa non è mai la conseguenza di una decisione del fotografo (naturalmente lo stesso discorso vale per un filmato in un'emittente televisiva). Il reporter scatta, documenta tutto quello che è possibile documentare. Poi la pubblicazione di un'immagine o di un'altra è una scelta della redazione. A volte sofferta, accompagnata da accese discussioni.

"La ricerca dello scoop è un atto compulsivo, atteso, cercato spasmodicamente in anni di vita nelle redazioni dei giornali. E’ inutile nascondersi. L’educazione all’orrore si fa da anni nei giornali, i capiredattori, i direttori chiedono sangue. In Italia e anche altrove. In tutto il mondo. La foto, soprattutto la più drammatica, la più acerba, la più terribile, quella che sembra impossibile, raccapricciante, è la più ricercata, la più voluta e richiesta. E anche pagata. Benissimo. Inutile mentire".

Così scrive Paola Pastacaldi sul sito di Franco Abruzzo. Ma, almeno in parte, sbaglia. E' vero che, in alcune testate, "i direttori chiedono il sangue" (perché lo richiede il pubblico). E' anche vero che lo scoop è una speranza costante di ogni giornalista free-lance, anche perché il lavoro di routine spesso non basta per conciliare il pranzo con la cena. Per inciso, che la foto -scoop sia "pagata benissimo" è un'opinione come un'altra.

In ogni caso, il reporter che si trova sulla scena di un fatto documenta tutto quello che è possibile documentare. L'autocensura di solito non può scattare nel momento del dramma, quando ogni frazione di secondo può fare la differenza tra un servizio riuscito o un buco nell'acqua. Se mai, la scelta critica verrà dopo.
Il reporter è il testimone, non il protagonista di un fatto.

Testimone qualificato, e perciò credibile dal pubblico, fino a prova contraria. Anche perché le emozioni si attenuano, quando un professionista impugna la macchina fotografica o la telecamera. Tra l'occhio e il cuore si alza una barriera che rende possibile lavorare in ogni condizione. E' il mestiere del reporter: la mano non deve tremare.

Di questo posso dare una testimonianza diretta: il 5 agosto scorso ho visto la mia casa sfiorata dal fuoco, come ho documentato nel video Scene da un incendio (si è salvata solo per un provvidenziale cambio di vento). Sono scappato con solo la telecamera in mano, ho fatto in tempo a vedere le fiamme che incenerivano le piante sul balcone e mi sono dovuto allontanare perché il fumo e il calore erano insopportabili.

A quel punto gli occhi mi bruciavano. Non potevo guardare nel mirino. Ma non ho rinunciato a registrare l'audio che descriveva il dramma. Poi ho ricominciato a girare: quella che si intravede tra il fumo a 0:20" è la mia casa. Tremavo, il cuore mi batteva all'impazzata, vedevo tutta la mia vita sul punto di bruciare. E dei pompieri neanche l'ombra. Ma la mano era ferma. Quando un amico mi ha chiesto come avevo fatto a mantenermi così calmo, gli ho risposto che non ero affatto calmo: ero disperato e terrorizzato. Ma ero anche un reporter.

Un reporter che certo in quel momento non pensava allo scoop. E che sapeva che difficilmente avrebbe venduto quel video: giornali e televisioni non spendono un euro per documenti come questo, dove non c'è "il sangue". Per riempire pagine e minuti fanno man bassa, gratis, di quello che si trova sulla Rete. Poco importa se la qualità non è quella che possono dare i professionisti. Pensano che la gente abbia ormai fatto l'abitudine a immagini - e testi - di livello schifoso.

Certo, l'immagine del sangue aiuta a vendere. E chi campa di immagini non può porsi, sul momento, il problema di qualcuno che potrebbe essere disturbato dalla visione. Ma c'è un limite che non dovrebbe essere valicato: quello dell'autenticità della scena. Il fotografo che - si sospetta - abbia spostato il corpo della ragazzina uccisa ad Haiti, per aumentare l'impatto dell'inquadratura, avrebbe commesso un falso. Avrebbe smesso di essere testimone per "entrare nella scena", contraddicendo il senso stesso della sua professione (vedi appunto Estetica dell'omicidio).

Ma il discorso sull'etica del reporter e del giornale non si chiude qui. Perché oggi l'informazione professionale deve confrontarsi con quella non professionale, che pervade la Rete cioè con una smisurata quantità di immagini. Diffuse direttamente dagli autori, senza il filtro di una redazione, senza qualità né credibilità, ma spesso unica testimonianza di un fatto.

Ora proviamo a chiederci che cosa sarebbe accaduto se il New York Post avesse pubblicato non la foto di un professionista, ma lo scatto di qualcuno presente alla scena con un telefonino in mano. Qualcuno lo accuserebbe di non avere tentato di salvare l'uomo in pericolo? 
Pensiamoci bene. Il vero problema è l'indifferenza dei presenti, documentata con forza dall'immagine. Nessuno, sembra di capire, si avvicina al malcapitato, mentre il reporter non può fare altro che scattare.

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