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Sistema informazione

Etica dell'informazione: quando l'orrore diventa business

Estetica dell’omicidio

Ci sono fotografie che commuovono il mondo. Suscitano di volta in volta orrore, indignazione, pietà. E sono tanto più efficaci quanto più esteticamente accattivanti. Ma sono anche i prodotti di un mercato che non conosce etica.

di Ercole Tagliaferri – 27.11.12

(Vedi anche Il reporter non ha cuore. E neanche il pubblico)

Eric Kim, uno street photographer giramondo, pubblica la fotografia del cadavere di una ragazzina di quindici anni ammazzata dalla polizia di Haiti – o da qualche mercenario che proteggeva i “signori” del “paese” – per avere rubato due sedie di plastica e tre fotografie incorniciate, e le dichiarazioni di Paul Hansen, il reporter che la ha scattata e che ha “vinto” il titolo di Best international news image.
E’ la classica foto “choc” che tanto piace a media e lettori, capace di suscitare in quelli che la vedono i soliti cori di “vibrante protesta” e di regalare fama imperitura - e magari l’ingresso nell’Olimpo dei fotografi - a chi la ha scattata.

Poi - la foto è sempre pubblicata da Eric Kim ed è scattata da Nathan Weber - si scopre che il povero corpo della ragazzina è stato ulteriormente violentato da una torma di fotografi che gli si accaniva attorno per cercare di ottenere la migliore composizione dell’immagine.
E’ una scena che trasuda cinismo allo stato puro - fate caso alle espressioni dei volti dei reporter - e che (ri)propone un tema certo non nuovo nel “sistema informazione, sintetizzato nel commento di Eric Kim: is this photo ethical?

Che entrambe le immagini siano (per ragioni diverse) sgradevolmente dure è evidente. Come è evidente che la documentazione della morte violenta può essere – è – una forma di testimonianza e di raccolta della notizia. E infatti, in difesa di foto del genere, ci sono i soliti argomenti come: “il fotografo registra la realtà”, “la fotografia ha una funzione di denuncia sociale”, “non si può censurare una notizia”.

Nel caso specifico, però, l’effetto provocato dal mucchio di fotografi che si accalca sul cadavere e dai loro visi racconta un’altra notizia che nulla ha a che fare con la vicenda dell’omicidio. Professionisti sgomitanti che si impegnano a “fare il loro lavoro”, senza intralciarsi, per ottenere un’immagine quanto più possibile “monetizzabile”. A qualsiasi costo, compreso - forse – quello di “ricomporre” il corpicino in una “posa” più “accattivante”.

Ma costoro - e tutti quelli che, come loro introducono una componente estetizzante nella fotografia “dura” - sono realmente da biasimare? E sulla base di quale criterio? Foto come quelle di Diane Arbus non dovrebbero essere criticate negli stessi termini?
Forse, e forse no.

Diane Arbus è ricordata per l’incredibile modo in cui ha saputo fotografare emarginati e freak – fenomeni – e nessuno oggi la accusa di cinismo o di qualcosa di peggio. Perché ai fotografi della ragazzina haitiana non dovremmo applicare lo stesso metro?

Intanto, forse, perché Diane Arbus non vendeva le sue foto e non le scattava sapendo che sarebbero finite sul tavolo di un caporedattore che poi avrebbe deciso se pubblicarle o meno. Quei fotografi, invece, le hanno scattate consapevoli che ne sarebbe stata scelta uno (o al massimo, qualcuna) e che le avrebbero potute utilizzare - come poi è effettivamente accaduto - in mostre e concorsi internazionali.

Fino a quando un’immagine e la sua composizione hanno l’obiettivo di documentare e denunciare, ben vengano dieci, cento, mille fotografi. Ma quando al ruolo democratico della fotografia si affianca un interesse privato le cose sono del tutto diverse. E dunque forse questo è il discrimine fra la documentazione di un omicidio e l’esaltazione cinica dell’estetica della morte.

Senza false ipocrisie o ingenuità, c’è una differenza sostanziale fra chi, in nome del dovere di informare, cerca di ottenere l’immagine più coerente con questo scopo (anche in termini “estetici”) e chi, invece, con in mente l’obiettivo di venderla, “crea” un’immagine non necessariamente finalizzata a uno scopo diverso da quello di ottenere uno cheque per il “disturbo”.

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