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Sistema informazione

Riforma dell'editoria: non siamo tutti giornalisti 

24.09.07
Lo schema di disegno di legge approvato dal Governo è solo un abbozzo di riforma del sistema attuale e non tiene conto delle differenze tra informazione professionale e informazione spontanea. Si devono riscrivere le leggi del 1948 e del 1963.
 
"Gattopardesco" è il primo aggettivo che viene in mente leggendo lo schema di disegno di legge di riforma dell'editoria approvato dal Governo in via preliminare il 3 agosto scorso: "cambiare tutto per non cambiare nulla". A una più attenta lettura l'aggettivo si rivela sbagliato, perché il testo messo a punto dal sottosegretario Levi nella sostanza cambia poco o niente.
Tanto per incominciare, ancora una volta si mettono insieme due problemi diversi: l'assetto generale del settore editoriale, che attende da tempo una seria riforma, e il regime delle "provvidenze", che in un sistema sano dovrebbero essere del tutto marginali.
I primi commentatori hanno puntato l'attenzione sul secondo tema, quello dei contributi, ma i veri problemi sono nella prima parte del DDL. Vediamoli in sintesi scorrendo il testo.

L'art. 2 dello schema di disegno di legge riprende, con maggiore chiarezza, l'art. 1 della famigerata legge 62/01, esplicitamente abrogato dall'art. 31 dello stesso schema. La definizione di "prodotto editoriale" comprende quindi l'editoria on line e si sovrappone all'art. 1 della legge 47/48, che non è abrogato esplicitamente.

L'art. 5 dello schema è molto importante, perché comprende nella definizione di "attività editoriale" anche quella che "può essere svolta anche in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative": in pratica tutti i siti internet che in qualche modo danno informazioni.

L'art. 6 al comma 1 stabilisce che "tutti i soggetti che esercitano l’attività editoriale sono tenuti all’iscrizione nel Registro degli operatori di comunicazione": quindi anche coloro che la esercitano "in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative", cioè tutti i siti internet italiani, con l'eccezione di quelli che fanno solo commercio elettronico o altre attività "non editoriali".
Il secondo comma dello stesso articolo dice "L’iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione è condizione per l’inizio delle pubblicazioni dei quotidiani e dei periodici, e sostituisce a tutti gli effetti la registrazione presso il Tribunale, di cui all’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47". In sostanza riprende le disposizioni dell'art. 16 della 62/01, che non viene abrogato espressamente, mentre viene abrogato l'art. 5 della legge del '48 (art. 31 dello schema).

Le conseguenze di queste disposizioni, se fossero confermate nel testo definitivo del DDL e poi approvate dal Parlamento, sarebbero quantomeno bizzarre. Tanto per incominciare, l'abrogazione dell'art. 5 della legge del '48 farebbe sparire il riferimento normativo del secondo comma dell'art. 6 dello schema in questione. D'accordo, è solo una questione di tecnica legislativa. L'importante sono le conseguenze sostanziali: con la cancellazione dell'art. 5 della 47/48 si cancella anche la norma che prevede la presentazione di "un documento da cui risulti l'iscrizione nell'albo dei giornalisti, nei casi in cui questa sia richiesta dalle leggi sull'ordinamento professionale": un modo contorto di porre le premesse per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti (vedi Abolire l'Ordine? E' una proposta troppo "radicale").

Ma resterebbero in piedi tutte le altre disposizioni della normativa sulla stampa che fanno riferimento all'art. 5. Si prolungherebbe così la confusione determinata dalla legge del 2001, almeno fino all'emanazione del testo unico delle norme sull'editoria. Che, secondo l'art. 29 dello schema e salvo proroghe, dovrebbe avvenire entro un anno dall'entrata in vigore della legge di riforma.

Ma non è tutto. Scorrendo il testo si incontra l'art. 7, che al comma 1 stabilisce: "L’iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione dei soggetti che svolgono attività editoriale su internet rileva anche ai fini dell’applicazione delle norme sulla responsabilità connessa ai reati a mezzo stampa".
Il combinato disposto di questo comma con il comma 1 dell'art. 6 comporta dunque l'estensione delle previsioni di reati commessi a mezzo stampa anche a coloro che esercitano on line attività editoriali "in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative". Cioè i milioni di persone che hanno un blog o un sito dal quale diffondono informazioni. Questi soggetti avrebbero gli stessi obblighi dei giornalisti professionali, ma senza le garanzie che tutelano l'attività giornalistica.
In sostanza il legislatore continua con la confusione tra chi "fa informazione" come attività professionale e chi "dà informazioni" nel puro ambito garantito dall'art. 21 della Costituzione (vedi "Fare informazione" e "dare informazioni" sono cose diverse di Andrea Monti). Non si possono estendere i doveri senza estendere i diritti che ne costituiscono il presupposto essenziale. Ma è difficile immaginare che per il legislatore italiano tutti quelli che in qualche modo danno informazioni siano da considerare giornalisti.

Tutto questo è molto grave. L'Italia è l'unico paese democratico in cui la professione giornalistica non è aperta a tutti (anzi, qualcuno la vorrebbe sempre più chiusa). Ora si vuole sottoporre a un regime restrittivo anche l'informazione spontanea, dimenticando che nell'era dell'internet qualsiasi tentativo di limitare la libertà di espressione è destinato, prima o poi, al fallimento.

Una vera riforma dell'editoria dovrebbe passare, prima di tutto, per la completa riscrittura di due leggi fondamentali: quella del 1948 sulla stampa e quella del 1963 sulla professione giornalistica, nell'ottica di quella che continuiamo a chiamare "società dell'informazione". Non ci sono altre strade.

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