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Professione giornalista

Abolire l'Ordine? E' una proposta troppo "radicale"

07.09.06

Ritorna la proposta di abolire l'Ordine dei giornalisti, che invece propone ulteriori barriere: mettiamo in chiaro i termini del problema 

I radicali di nuovo all'attacco con una loro vecchia fissazione: l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti. Ci hanno provato con due referendum, nel 1974 e nel 1997. La prima volta non raccolsero nemmeno le firme necessarie per indire la consultazione, la seconda mancò il quorum.
Ora annunciano un progetto di legge firmato da Capezzone e De Lucia, che abroga la legge 69/63, istitutiva dell'Ordine, e introduce una "tessera di riconoscimento professionale", di competenza dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Ed è subito polemica.

Prima di dare conto delle reazioni alla proposta dei radicali, occorre una premessa: il problema non è tanto nella sopravvivenza o nella abolizione dell'Ordine, quanto nelle regole per l'accesso alla professione, per il rispetto della deontologia e per le misure di tutela della professione, troppo spesso soggetta ad attacchi che tendono a minare l'autonomia dei giornalisti. Su quest'ultimo aspetto la proposta di legge non dice nulla. In ultima analisi può essere considerata una provocazione, che ha il merito di aprire una discussione troppo a lungo rinviata.

Infatti le reazioni non si fanno attendere. Per il segretario generale della Federazione nazionale della stampa, Paolo Serventi Longhi, "La proposta degli onorevoli Capezzone e De Lucia, di abolire l’Ordine dei gionalisti e di istituire una carta professionale, sul modello francese, non può essere liquidata con un semplice 'no'. Anzi, va valutata con estrema attenzione".
Lo rimbrotta Bruno Tucci, presidente dell'Ordine del Lazio: "Si preoccupi di più del rinnovo del contratto di lavoro e meno dell'abolizione dell'Ordine dei giornalisti".
Interviene Lorenzo Del Boca, presidente dell'Ordine del Lazio: "L'Ordine è disposto al dialogo, ma noi non condividiamo la proposta di legge sull'abolizione dell'Ordine. Vorremmo che i Radicali dialoghino anche con l'Ordine dei giornalisti sulla nostra proposta, che prevede di rivedere e modificare la legge attuale che risale al 1963, e non di abolire l'Ordine".

Tuona Franco Abruzzo, presidente dell'Ordine della Lombardia. Se si abolisce l'Ordine, scrive Abruzzo, "quella dei giornalisti non sarà più una professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge; risulterà abolita la deontologia professionale fissata nell’articolo 2 della legge professionale n. 69/1963; cadrà per giornalisti (ed editori) la norma che impone il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie; senza legge professionale, direttori e redattori saranno degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105) del Codice civile che riguarda gli obblighi di fedeltà verso l’azienda. Il direttore non sarà giuridicamente nelle condizioni di garantire l’autonomia della sua redazione".

Il presidente dell'Ordine lombardo insiste nella sua richiesta della laurea specialistica, seguita da un esame di stato, come unica via di accesso alla professione. La soluzione, dice Abruzzo, toglierebbe agli editori il potere di decidere chi può essere giornalista e chi no. Dunque sarebbe lo Stato, e per lui l'ordine professionale, a dare la "patente" di giornalista, come quella di medico, avvocato, commercialista eccetera.

Si confrontano dunque due posizioni opposte: quella della massima apertura, fondata sul riconoscimento di una situazione di fatto (almeno questo sembra lo spirito della proposta dei radicali) e quella della chiusura corporativa, operata attraverso il percorso obbligatorio della laurea e dell'esame di stato, come per le libere professioni per le quali è prevalente l'esigenza della tutela del cittadino che ha un rapporto diretto con il professionista.

Questo punto è il presupposto che vizia il ragionamento di chi sostiene l'accesso regolato dallo Stato: la qualificazione dei giornalisti professionisti come "liberi professionisti" (per i quali, fra l'altro, l'Unione europea chiede di allargare le maglie dell'accesso, non di restringerle).
La questione è stata risolta dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 214 del 1972, che afferma:

Invero, né i giornalisti sono liberi professionisti, né la loro cassa di previdenza ha gli stessi compiti delle casse che gestiscono la previdenza a favore dei sopraindicati esercenti professioni liberali [avvocati, dottori commercialisti, ragionieri, geometri, NDR]. È vero, peraltro, che dalla legge che disciplina la loro attività (legge 3 febbraio 1963, n. 69) i giornalisti sono qualificati giornalisti-professionisti, ma tale denominazione è loro conferita al solo fine di distinguerli dai "pubblicisti", per quanto concerne la professionalità dell'impegno di lavoro dei primi, che deve essere esclusivo e continuativo, cosa che non occorre invece per quegli altri che, unitamente all'attività giornalistica, possono anche esercitare altre professioni o impieghi (art. 1, comma quarto, detta legge). Comunque sia poi in merito a tale qualificazione, certo è che i giornalisti-professionisti sono lavoratori dipendenti, il cui rapporto dì lavoro è regolato da contratti collettivi, onde è certo che liberi professionisti o professionisti, nel senso tradizionale, essi non sono.

Emerge a questo punto con chiarezza il problema di fondo: l'ordinamento della professione, così come è stato disegnato dalla legge n. 69 del 1963 (che riprende con poche varianti il modello pensato da Mussolini nel 1925) non è adeguato all'informazione di oggi. Allora (nel '25, ma anche nel '63) i giornalisti a tempo pieno erano per lo più dipendenti dagli editori, altri scrivevano "a tempo perso", avendo un'altra attività lavorativa. La distinzione tra "professionisti" (leggi: "professionali" e "pubblicisti" aveva un senso.
Non è più così. Oggi c'è una quantità di giornalisti (e fotogiornalisti e videogiornalisti) che svolge la professione a tempo pieno, ma senza dipendere da un editore. Però per la legge sono giornalisti "a tempo perso" e di fatto sono spesso lavoratori precari malpagati.

Corsi di formazione, lauree specialistiche, esami di qualificazione: strumenti utilissimi per migliorare la preparazione professionale e per trovare più facilmente un lavoro (ma si pone il problema di capire se gli editori preferiranno assumere giornalisti più qualificati, che dovranno essere pagati di più, o meno qualificati, per risparmiare... Oggi come oggi, la seconda soluzione sembra più probabile, con qualche eccezione).

Questo è il primo punto che deve essere affrontato nella revisione della normativa. La qualifica professionale deve essere riconosciuta a chiunque faccia il giornalista come attività prevalente e continuativa, dipenda o no da un editore. Se debba o no superare un esame di abilitazione è questione da valutare. In ogni caso questo professionista dell'informazione dovrà assumersi precise responsabilità e dovrà essere tutelato nella sua indipendenza (che comporta, fra l'altro, il segreto sulle fonti).

Il problema è stabilire chi debba avere il potere di riconoscere la qualifica di giornalista professionale e rilasciare la tessera. D'accordo sul fatto che non possono essere gli editori a detenere le chiavi dell'accesso alla professione, ma anche l'attribuzione a un organo dello Stato (sia esso un ordine professionale o un'autorità formalmente indipendente) non soddisfa. Infatti fa rientrare dalla finestra una forma indiretta di "autorizzazione" che l'articolo 21 della Costituzione ha inequivocabilmente cacciato dalla porta.

La soluzione, come in altri Paesi democratici, potrebbe essere nella costituzione di un organismo associativo la cui autorità sia riconosciuta dalla legge. Questo organismo avrebbe anche il compito di tutelare l'indipendenza dei giornalisti e di imporre il rispetto delle regole deontologiche.
In ogni caso la ventilata abolizione dell'Ordine non può comportare il... dis-ordine, cioè l'abolizione della deontologia professionale e delle norme che oggi (bene o male) sono poste a difesa dell'attività giornalistica. Le leggi si possono cambiare, alcuni principi essenziali devono restare intatti. 

Ma non è solo la legge 69/63 che deve essere abrogata (e sostituita da una nuova, più articolata di quella proposta da Capezzone). Tutto l'ordinamento dell'informazione deve essere rivisto con una normativa "di sistema", che tolga di mezzo quel relitto che è la legge 47 del 1948 e quell'inqualificabile pasticcio costituito dal tentativo di aggiornarla con la 62/01 (vedi Editoria, un confuso groviglio normativo e molti altri articoli nella sezione Internet e stampa).

In conclusione, si deve trovare una via di mezzo tra la soluzione dei radicali e quella (altrettanto "radicale"...) di una parte dell'Ordine dei giornalisti.
La questione deve essere affrontata e risolta tenendo anche presente che un organismo statale, come l'attuale Ordine dei giornalisti, non esiste in nessun altro stato democratico. Non a caso, come si è detto, è stato inventato in un periodo in cui nel nostro Paese la democrazia era al crepuscolo e la stampa doveva essere controllata dalle autorità.

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