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Sistema informazione

La Rai non sarà la BBC, ma si  deve tentare

05.06.06
Duopolio. Par condicio. Conflitto di interessi. Concorrenza tra pubblico e privato. Televisione "di qualità" contro "televisione deficiente". Imparzialità e pluralismo. E ancora...
Parole-chiave di una discussione che va avanti dagli anni '70, quando incominciarono a nascere le televisioni private. Si inserirono nel varco aperto da una sentenza della Corte costituzionale, che pose fine al monopolio televisivo di stato e lasciò un vuoto normativo che la politica non seppe o non volle colmare nel modo giusto.

Né la legge 103/75 "Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva" né la 223/90 "Mammì" riuscirono a mettere ordine. Anzi, si limitarono a "fotografare" e quindi congelare la situazione.
Poi altre sentenze della Corte costituzionale  (puntualmente aggirate) e altre leggi, da ultima la 112/2004 "Gasparri", hanno prodotto il sistema che conosciamo. Siamo arrivati al punto di un consiglio di amministrazione della Rai, nominato per maggiore "imparzialità" dai presidenti delle Camere, composto da soli appartenenti alla maggioranza. Con la beffa di un presidente "di garanzia", che non poteva garantire un bel nulla perché sarebbe stato sempre e comunque in minoranza.

A nulla sono valsi gli ammonimenti dell'allora presidente della Repubblica: il messaggio di Ciampi nel 2002 conteneva tutti i principi ai quali avrebbe dovuto ispirarsi una seria riforma (vedi "Legge di sistema" o bavaglio sistematico?), ma è rimasto lettera morta.
Così nei mesi scorsi abbiamo visto il presidente del consiglio in carica dilagare per settimane su tutte le reti televisive, approfittando del vuoto di regole che precede il periodo di par condicio nella campagna elettorale. Senza possibilità di replica da parte dell'opposizione.

Ora che il padrone delle televisioni private non può più influire pesantemente sulla Rai è possibile pensare a una riforma seria. Una riforma che sottragga il controllo della televisione pubblica alla maggioranza parlamentare, controllo esercitato attraverso la commissione di indirizzo generale e vigilanza. La quale, essendo appunto "parlamentare", non può che riflettere la maggioranza che sostiene l'esecutivo. Con la conseguenza che questo si sente legittimato a "governare" la televisione pubblica, anche se nessuna legge gli consente di interventi diretti o indiretti come quelli che abbiamo visto, dal cosiddetto "editto bulgaro" alle nomine dei vertici dell'ente.

Questo è il nodo centrale del progetto di legge di iniziativa popolare messo in cantiere da un gruppo di personaggi dello spettacolo (in prima fila Sabina Guzzanti), intellettuali, politici, giornalisti. Si intitola "Per un'altra TV". Tutte le informazioni sono sul sito dedicato all'iniziativa, comprese quelle per la raccolta delle firme (ne occorrono 50.000). 

La proposta ha un valore importante. Disegna un modello forse possibile di televisione pubblica e in qualche modo indipendente. Il punto chiave è l'abolizione della commissione parlamentare di "vigilanza e indirizzo", sostituita da un organismo rappresentativo della società italiana, il "Consiglio per le comunicazioni audiovisive" (art. 2)

Il progetto presenta qualche punto discutibile. In generale mantiene il linguaggio abbastanza criptico, fatto di perifrasi e rinvii, che caratterizza la produzione normativa italiana di questi anni. Non soddisfa l'art. 4 sul pluralismo informativo, anche perché non è ben definito il contesto della comunicazione elettronica nel suo insieme e nel rapporto con il sistema complessivo della comunicazione e dell'informazione.
Anche il concetto di "servizio pubblico" resta vago. Se ne indicano i compiti, ma non si dice che cosa è servizio pubblico e che cosa non lo è. Non si tocca quindi la situazione attuale, che vede in concorrenza due sistemi che dovrebbero avere obiettivi diversi e quindi non essere concorrenti.

Una precisa definizione del servizio pubblico consentirebbe di sottrarre la Rai alla dittatura del famigerato Auditel, facendo cessare la concorrenza al ribasso sulla qualità dei programmi e al rialzo sui compensi dei personaggi più quotati.
Non sono dettagli, ma in ogni caso non tolgono valore alla proposta, che è giusto sottoscrivere per inviare al Parlamento un segnale netto del desiderio degli italiani di cambiare sistema.
E di sistemi possibili ce ne sono diversi, come mostrano quelli, descritti nel sito della proposta di legge, di Gran Bretagna, Germania e Spagna.

La Rai come la BBC? Utopia, forse, ma è importante guardare il modello e cercare di farlo nostro, fin dove è possibile. Gli spunti, nel progetto di legge, non mancano. E non mancano dettagli significativi, come  l'art. 5, che riprende la normativa sul decoder unico platealmente violata da Sky Italia con il colpevole beneplacito delle autorità competenti: E' un elemento essenziale, senza il quale non può esistere alcun reale pluralismo informativo (vedi i numerosi articoli sull'argomento nell'indice della sezione "Sistema informazione" di InterLex).

Ma la nostra classe politica, l'attuale maggioranza, saprà rinunciare a questo formidabile strumento di potere? Riuscirà a farlo solo se rifletterà sul fatto che un domani, a un cambio di maggioranza, un sistema non diverso da quello attuale consentirà a quella che oggi è l'opposizione di riprendere il controllo totale dell'informazione televisiva.  Anche se una legge equilibrata sul conflitto di interessi potrebbe evitare gli eccessi che abbiamo sperimentato.
Insomma, mettiamo via la pistola per evitare che altri, prima o poi, possano di nuovo trasformarla in un cannone. 

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