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Professione giornalista

Tre referendum "contro" l'informazione. Sono utili?

13.05.08
Contributi all'editoria, legge Gasparri, Ordine dei giornalisti. Tre normative che si vorrebbero cancellare a forza di insulti e di firme probabilmente inutili. Ma sono questioni serie, da discutere con cognizione di causa e argomenti credibili.
 
Il 25 aprile scorso l'ex-comico Beppe Grillo ha lanciato tre referendum in materia  di informazione, con il solito contorno di urla e insulti. I media hanno dato grande rilievo alla notizia, riportando l'affermazione che in un solo giorno sarebbero state raccolte 450.000 firme.
Dopo pochissimo tempo stampa e TV hanno smesso di occuparsi della questione. Che cosa è successo? Forse ci si è accorti che le firme potrebbero non essere valide perché è impossibile depositarle nei termini previsti dalla legge? O forse il silenzio è sceso per uno di quei meccanismi di sparizione delle notizie descritti da Furio Colombo nel suo libretto sul post-giornalismo?
La materia è troppo delicata perché possa essere trattata a suon di "vaffa" e invettive. Cerchiamo allora di ragionare su alcuni punti cruciali.

Con la prima delle tre domande referendarie si chiederebbe l'abolizione dei finanziamenti pubblici all'editoria, con la seconda del testo unico della televisione (la cosiddetta "legge Gasparri"), con la terza della legge del 1963 istitutiva dell'Ordine dei giornalisti.
Il condizionale è d'obbligo per due motivi: il primo è che, secondo molti giuristi, le firme non avrebbero valore. Infatti devono essere raccolte entro tre mesi dalla richiesta di referendum, ma non possono essere depositate prima di sei mesi dalla data di convocazione dei comizi elettorali. Il conto è presto fatto, partendo dal 6 febbraio, data dello scioglimento delle Camere e della convocazione dei comizi.

Il secondo motivo di incertezza riguarda proprio le richieste di referendum. La ricerca sulla Gazzetta ufficiale on line porta a questo risultato: il 16 marzo 2008, secondo il comunicato della Corte di cassazione, è stato richiesto il referendum sull'abrogazione di norme sui contributi all'editoria. Degli altri due non c'è traccia. E' uno dei tanti "buchi di conoscenza" che affliggono la pubblicazione on line delle nostre leggi, o le richieste non sono state nemmeno presentate? A favore di quest'ultima tesi c'è l'inconsistenza dei testi dei quesiti referendari, così come sono riportati dai vari siti che raccolgono il verbo dell'ex-comico. In sostanza essi non soddisfano i requisiti della legge sui referendum, la n. 352 del 1970, che impone di riportare per esteso le norme che si vorrebbero abrogare.

Ma, a parte le questioni formali, è opportuno approfondire la sostanza delle richieste.
Primo. I contributi pubblici all'editoria sono uno scandalo italiano che deve cessare (vedi La casta dei giornali di Beppe Lopez). Un primo tentativo di ridurre l'enorme flusso di denaro che esce dalle casse dello Stato è stato fatto durante il precedente governo di centro-destra con il disegno di legge "Bonaiuti", un altro con il disegno di legge "Levi" durante la legislatura appena conclusa. Ambedue sono abortiti. Ma la questione è all'ordine del giorno e il referendum (che dovrebbe svolgersi il prossimo anno) potrebbe arrivare in ritardo.

Secondo. La legge Gasparri è nel mirino dell'Unione europea perché non apre il mercato del digitale terrestre. C'è in sospeso anche l'attuazione della decisione della Corte di giustizia sulla vicenda di Europa 7 (vedi Europa7. La fine del duopolio televisivo in Italia?). La revisione della legge non dovrebbe essere lontana, perché tutti si dicono d'accordo sulla necessità di rivedere anche la parte che riguarda la nomina del consiglio di amministrazione della Rai, che scade alla fine di questo mese.
Dunque anche questo referendum potrebbe essere cancellato (se mai fosse ammesso) prima di essere celebrato.

Tutto questo non significa che i due temi non debbano essere seguiti con molta attenzione. Ce ne occuperemo presto.
Per ora ci soffermiamo sulla terza questione, relativa all'abolizione dell'Ordine dei giornalisti. Il problema non può essere risolto con gli insulti e i "vaffa" da una parte e con uno sterile arroccamento dall'altra.
Dei primi non vale la pena di dare conto. Delle ragioni dei difensori dello status quo è invece necessario discutere, ricordando che un referendum sullo stesso tema si tenne nel 1997 (allora non fu raggiunto il quorum e quindi il risultato fu nullo, ma circa l'80 per cento dei votanti si era espresso per l'abolizione dell'Ordine).

Gli argomenti di chi si oppone all'abolizione dell'Ordine sono sostanzialmente due:
1. Senza l'Ordine verrebbe meno la deontologia e i giornalisti diventerebbero meri esecutori della volontà degli editori.
Per capire l'inconsistenza di questi argomenti basta osservare quanto avviene negli altri paesi democratici, in nessuno dei quali esiste un organismo simile al nostro. Al rispetto della deontologia e della dignità dei giornalisti provvedono libere associazioni, con risultati spesso migliori di quelli che vediamo a casa nostra.

2. Sempre secondo i suoi difensori,l'Ordine (al quale si dovrebbe accedere con un esame di stato), è previsto dalla Costituzione e dall'ordinamento europeo. In realtà la legge attuale prevede non un esame di stato, ma una prova di idoneità professionale.
E' curioso che uno dei più accaniti difensori dell'organismo, l'ex-presidente dell'Ordine lombardo Franco Abruzzo, prima abbia chiesto a gran voce che i giornalisti fossero inseriti nella Costituzione, poi si sia accorto che ci sono già, in forza dell'art. 33. Un'interpretazione estensiva, quest'ultima, seguendo la quale sarebbero previsti dalla carta costituzionale anche un ordine degli idraulici, uno dei ciabattini e uno dei conduttori di autobus...

Per quanto riguarda la presunta "obbligatorietà" dell'esistenza dell'Ordine in forza di norme europee, basta osservare che i giornalisti non sono citati in nessuna delle direttive comunitarie sulle professioni (89/48, 92/51 e 2005/36). E che non solo in nessun paese dell'Unione esiste un organismo di stato come il nostro, ma che nessuno progetta di costituirlo.

Il problema non è solo l'esistenza dell'Ordine dei giornalisti, che è destinato a perire per la forza stessa dell'evoluzione del sistema dell'informazione su scala globale. E' l'intero assetto della comunicazione nel nostro Paese che deve essere rivisto, dal sistema radiotelevisivo a quello dei giornali. Qualcuno dovrebbe svolgere una ricerca su quanta parte dell'informazione è realizzata da giornalisti professionali e quanta da precari e da volontari sfruttati e sottopagati a livelli vergognosi. Sarebbe interessante sapere quanta professionalità non valorizzata e quanta non-professionalità concorrano a disegnare un quadro complessivo ormai indifendibile.

Basta ricordare che i giornalisti dipendenti sono da tre anni senza contratto. C'è un Ordine che non fa nulla in difesa della professione, c'è un sindacato che, evidentemente, non ha la forza di combattere contro lo strapotere degli editori.
Di fronte a tutto questo i referendum possono essere la soluzione giusta per cambiare lo stato delle cose?

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