La protrusione cilindrica sul lato destro del Photomic della prima generazione. È composta da tre parti avvitate una sull'altra: da destra, il coperchio del vano della batteria, il disco per la misurazione della luce incidente e il delimitatore del campo di lettura.
Qui sopra a sinistra il dischetto per la misurazione della luce incidente, a destra il delimitatore del campo di lettura.

Il primo Photomic racconta la fotografia degli anni '60

Quando era importante saper misurare la luce

7 marzo 2022
Quella strana appendice cilindrica sul fianco del mirino, a che servirà? Me lo chiedevo ogni volta che mi incantavo a sognare una Nikon F Photomic davanti a una vetrina del centro di Roma. Un negozio di lusso, dove un adolescente squattrinato come me non osava neanche entrare.
Gli anni passarono. Venne il tempo in cui le Nikon per me non avevano segreti, o quasi. E anche quello ormai è un tempo lontano. Ma il passato ritorna quando meno te l'aspetti: il Photomic con il cilindretto zigrinato mi guarda da una vetrina interna della  Romana Photo dell'amico Riccardo Scoma, da almeno mezzo secolo "il Re dell'usato fotografico" a Roma. L'apparecchio non suscita solo ricordi personali: rappresenta una tappa importante nella storia delle macchine fotografiche.
Forse questa è la prima brochure della Nikon F. Non c'è ancora il Photomic, ma si propone un accessorio, il Fully Coupled Exposure Meter, l'esposimetro derivato da quello della Nikon FP a telemetro. Fully Coupled significava "accoppiato ai tempi e ai diaframmi". E per l'accoppiamento alla ghiera dei diaframmi esordiva la "forchetta", che sarebbe rimasta per più di vent'anni il segno distintivo degli obiettivi Nikkor.

Il Weston Photronic 650, uno dei primi esposimetri con cellula al selenio, costruito dal 1935. (foto da Wikipedia)

Questa Nikon F ha quasi sessant'anni e li dimostra tutti. Ma funziona perfettamente. E' raro trovare una Nikon con le cromature in condizioni così deplorevoli (altro discorso quello delle Nikon nere, di solito massacrate dai professionisti, eppure sempre funzionanti).
Mi interessa il mirino-esposimetro Photomic, primissima versione. Mi interessa perché presenta alcuni dettagli che raccontano come si fotografava negli anni '60 del secolo scorso, quando poche fotocamere avevano l'esposimetro e alcune neanche il telemetro. Erano sostituiti da un dispositivo che sbagliava di rado: l'occhio del fotografo.
Però, a volte, la misura "occhiometrica" non bastava. Con il bianco e nero un errore si poteva correggere in fase di stampa, ma quando divenne di uso comune la pellicola a colori diapositiva (il Kodachrome fu introdotto nel 1935), con bassa latitudine di posa e nessuna possibilità di correzioni, incominciò l'era degli esposimetri. E qui può essere utile qualche briciola di storia.

I primi "fotometri" erano  semplici: un sensore, un galvanometro e un regolo calcolatore circolare. Il sensore era costituito da una piastrina rivestita di selenio, un minerale che produce una debole corrente elettrica quando è esposto alla luce. Sulla piastrina era montato un sistema di lenti con funzione di condensatore. Per ottenere una sufficiente sensibilità alle basse luci occorreva una piastrina abbastanza grande (alcuni esposimetri potevano essere dotati di un secondo sensore, in funzione di booster). Erano apparecchi abbastanza precisi, se usati a dovere . Restano nella storia i tedeschi Gossen e gli americani Weston e Norwood. Questi ultimi hanno come discendenti diretti i giapponesi Sekonic, oggi usati nelle applicazioni più critiche.

In una brochure dell'epoca, l'ultima Nikon a telemetro, la SP del 1957 (in basso) e la meno costosa S3 del 1958, con l'esposimetro accessorio al selenio. Sulla S3 è montata la cellula aggiuntiva con funzione di booster.
Erano pochi gli strumenti dedicati a uno specifico apparecchio. Il più celebre (e costoso!) era il Leicameter, introdotto dal 1934 in molte versioni da diversi fabbricanti, ma impossibile da collegare ai comandi dell'apparecchio. Solo nel 1954, con l'avvio della serie M (le Leica con attacco a baionetta), fu possibile accoppiare lo strumento al selettore dei tempi di posa.

Il primo esposimetro per la Nikon F, sempre al selenio (qui a sinistra da un'altra brochure del tempo) presentava una caratteristica innovativa: era full coupled, cioè collegato sia al selettore dei tempi sia all'anello dei diaframmi, provvisto a questo scopo della "forchetta" che resterà per vent'anni il segno distintivo degli obiettivi Nikkor.

Ed ecco, nel 1962, il Photomic. Non è un elemento aggiuntivo, ma un mirino reflex con esposimetro incorporato, da installare al posto del pentaprisma standard. Non c'è ancora la lettura attraverso l'obiettivo (Trough The Lens – TTL), che arriverà con modello successivo e funzionerà alla piena apertura del diaframma (in molte fotocamere contemporanee occorre chiudere fisicamente il diaframma e la visione si oscura).
Non c'è più il sensore al selenio. La tecnologia dei primi anni '60 lo manda nel dimenticatoio: ora si impiegano elementi al solfuro di cadmio (CdS), più sensibili e molto più piccoli, anche se più lenti nella risposta. Un problema è che sono inclini a "ubriacarsi": se sono esposti alla luce per molto tempo, hanno bisogno di qualche minuto di buio per smaltire la sbornia e dare di nuovo indicazioni attendili.
C'è un altro problema: il sensore al CdS non produce corrente, ma varia la sua resistenza al variare della luce. Quindi si deve inserire nel circuito una batteria, che si scarica quando l'elemento è esposto alla luce. Anche per questo è necessario ricordarsi di spegnere il sistema quando non è in uso. E questo è un altro problema.
Gli ingegneri di Tokyo risolvono i tre problemi in un solo colpo.
La trovata è una strana banderuola che, in posizione di riposo, copre la cellula e la lascia al buio. In questa condizione la resistenza dell'elemento al CdS va all'infinito, la corrente non passa più, la pila non si scarica inutilmente e non ci sono rischi di "ebbrezza". Risolto anche il problema del consumo a vuoto: la faccia posteriore della banderuola mostra un segnale rosso per ricordare al fotografo distratto di "spegnere" l'esposimetro.

Questo sistema, divertente ma efficace, non ha vita lunga. Dopo poco tempo dalla messa in vendita è sostituito da un più convenzionale interruttore a pulsante. Questo rimane inalterato nelle successive versioni del Photomic: il Photomic T (1964) con lettura media sull'intero campo inquadrato; il Photomic TN (1967) con misura semispot; infine il Photomic FTn (1968)  con lettura a prevalenza dell'area centrale di 12mm di diametro, indicata nel mirino. L'FTn presenta anche la lettura interna dei tempi e dei diaframmi. Resterà lo schema di tutte le Nikon successive, fino all'introduzione della lettura "a matrice" con la Nikon FA del 1983: l'embrione dei sistemi di misura dell'esposizione adattabili alle esigenze della ripresa, che troviamo oggi su tutti gli apparecchi digitali.

La caratteristica più interessante del primo Photomic è l'appendice cilindrica che sporge sulla destra (impugnando l'apparecchio). È composta da tre pezzi: la base, che costituisce il coperchio del vano della pila; su questa è avvitato un dischetto con un cerchio opalino, per la misurazione della luce incidente; sul dischetto è avvitato un cilindro con la funzione di delimitatore del campo di lettura quando si impiega un teleobiettivo. Il dischetto o il cilindro si possono avvitare davanti alla lente del sensore.
Dunque ci sono tre sistemi di misurazione, utili per i fotografi più attenti, che possono determinare l'esposizione con maggiore precisione. In particolare, la lettura a luce incidente (cioè puntando il sensore dalla posizione del soggetto verso l'obiettivo) consente di non tenere conto di aree molto chiare o molto scure. Ancora, puntando verso le sorgenti di luce si possono confrontare i differenti flussi luminosi.

Roba da leccarsi i baffi. Oggi, con le fotocamere digitali, tutto questo appartiene al passato. Gli automatismi producono quasi sempre immagini di qualità accettabile, ma la regolazione fine dell'esposizione è sempre affidata all'occhio e all'esperienza – all'intelligenza – del fotografo. E chi vuole misurare la luce incidente deve munirsi di un esposimetro separato.

Una domanda per concludere: questo Photomic funziona ancora? Una prova al volo con un'alimentazione di fortuna mostra che la lancetta si muove con le variazioni della luce.Quindi al massimo potrebbe essere necessaria una taratura.

Il problema è la batteria al mercurio (qui a destra si vede quella rimasta per chissà quanti anni nell'apparecchio. E' gonfia, ma non ha provocato danni). E' una PX625 da 1.35V. A quei tempi era diffusissima, la usavano quasi tutte le fotocamere degli anni '60 e '70. Ma le pile al mercurio  sono da anni al bando, perché molto inquinanti.
Quelle attuali, alcaline o all'ossido d'argento, hanno una tensione di 1,55V e una diversa curva di scarica; per questo è problematico adattarle ai vecchi circuiti di misura, anche se le minori dimensioni aiutano i tentativi di adattamento.
Da poco tempo si trovano in vendita pile che funzionano col sistema zinco-aria, con la stessa tensione e le stesse dimensioni delle PX625. Sono pensate proprio per "resuscitare" i dispositivi vintage. Hanno un prezzo elevato e chi le ha provate dice che funzionano, ma si esauriscono in poco tempo.

Manlio Cammarata reporter - Newsletter
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