Il logo della Magnum Photos. L'agenzia fu costituita a New York nel 1947, sotto forma di cooperativa, da un gruppo di grandi fotografi che avevano documentato le guerre su tutti i fronti, dalla Spagna alla seconda guerra mondiale: Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger e William Vandiver.
Offre un archivio sterminato che documenta con immagini di qualità più di settant'anni di storia di ogni angolo del del mondo.

La Magnum Photos e la cancel culture: una brutta storia

31 agosto 2020

In questo strano mese di agosto il tema "Covid-19" ha relegato in secondo piano molte vicende importanti per chi si occupa di diritto e informazione. Una, in particolare, non va trascurata, perché riguarda la libertà di espressione: oggi non sono i giudici a decidere che cosa è (eventualmente) da censurare, ma "la Rete", o meglio il furore social nella sua più recente espressione della cancel culture.
Protagonista della storia è la Magnum Photos, la più qualificata agenzia fotografica del mondo.

La brutta storia si svolge in due tempi.
Primo tempo. In un un articolo su Fstoppers (una online community di fotografi), il 6 agosto scorso un tale Andy Day denuncia che la Magnum Photos rende disponibili immagini di presunti abusi sessuali su minori, in un reportage realizzato nel 1989 da David Alan Harvey. Sostiene Day che si tratta di pornografia minorile, un reato gravissimo per leggi americane (come in buona parte del mondo – la storia è ben riassunta e commentata da Andrea Monti su Wired). I social fanno eco...

Non è questa la sede per riaprire la discussione su che cosa sia o non sia pornografia. La Magnum pubblica da sempre reportage di informazione e denuncia e rispetta un serio codice etico. Ma siamo ai tempi della cancel culture, l'ultima follia che scatena su i social campagne deliranti, portando ad atti inconsulti: una statua di Cristoforo Colombo abbattuta e buttata in mare è solo un esempio tra i tanti.

Il reporter, con le parole o con le immagini, documenta la realtà per metterla a disposizione di chi vuole conoscerla. Se poi il suo lavoro consiste nel riportare situazioni scomode o di forte impatto emotivo, al limite agghiaccianti o addirittura oscene, ha solo il dovere di registrarle con onestà, non di esagerarle o di addolcirle. Non si può condannare un fotografo perché registra immagini che nessuno vorrebbe vedere. Se non lo facesse tradirebbe l'essenza della sua professione.

Della denuncia di Andy Day la Magnum Photos potrebbe infischiarsene. O potrebbe rispondere per le rime. Invece si arrende alla cancel culture, nasconde le immagini di Harvey e annuncia una revisione dell'intero archivio con una dichiarazione firmata dalla presidente Olivia Arthur e dalla CEO Caitlin Hughes. Aderisce, in sostanza, a quel politically correct che è la perniciosa ipocrisia del nostro tempo. E questo non fa bene al giornalismo, perché produce iniziative di autocensura che rendono sterile ogni codice etico.

Negli ordinamenti democratici solo un giudice può ordinare, con una sentenza motivata, una limitazione della libertà di espressione. Negli USA il Primo Emendamento è sempre stato considerato un pilastro imprescindibile. Dice che "Il Congresso non promulgherà leggi [...] che limitino la libertà di parola, o di stampa" La diffusione dell'internet e la difficoltà di controllarne in contenuti ha portato a diverse e non sempre condivisibili eccezioni a questo principio.
Ma ora siamo allo scatafascio più totale, se un gruppo di forsennati può dire alla Magnum Photos che cosa può o non può pubblicare. Lascia l'amaro in bocca il fatto  che l'agenzia ha "ubbidito" senza discutere.

Secondo tempo. Il 20 agosto una nuova tegola si abbatte sulla Magnum e su Dave Alan Harvey: una "denuncia confidenziale" di molestie sessuali in un collegio femminile (vedi l'articolo su Petapixel).
Il direttivo dell'agenzia sospende il fotografo e avvia un'indagine formale, con un secco comunicato.

Due denunce, la prima pubblica e la seconda "confidenziale", contro lo stesso reporter, a distanza di due settimane: una coincidenza? Probabilmente no, la denuncia confidenziale può essere stata incoraggiata da quella pubblica.
Ma i conti non tornano. Da una parte è strano (anche in tempi di cancel culture) che una struttura con la fama e la potenza mediatica della Magnum si arrenda di fronte a sgangherate accuse di pornografia.

Dall'altra è giusto che l'accusato venga sospeso in attesa dei risultati di un'indagine formale su presunti comportamenti inaccettabili, anche alla luce del codice etico dell'agenzia. Ma in seguito a una denuncia confidenziale sembrerebbe più consona un'indagine altrettanto confidenziale, riservata, fino a quando non sia accertata l'effettiva colpevolezza del reporter.

Si ha la strana sensazione che l'agenzia voglia mettere le mani avanti, anticipare future denunce sbandierando la correttezza dei propri comportamenti. Un indizio di questo atteggiamento è nella prima dichiarazione, quando si annuncia una revisione dell'intero archivio in seguito a un'accusa che potrebbe essere pretestuosa o semplicemente esagerata, nel clima della cancel culture.

Ma se tutto questo si risolve nell'autocensura, allora la libertà di informare è veramente in pericolo. E non per le leggi di uno Stato autoritario, o per decisione di un giudice troppo zelante, ma perché lo impone il social. Un paradosso dell'internet, che si credeva strumento di libertà.

David Alan Harvey, il fotografo dell'agenzia Magnum sotto accusa per presunte pedopornografia e molestie sessuali (foto da Wikipedia).

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