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Internet e stampa

Anonimato in Rete e responsabilità del provider

di Guido Scorza* - 11.04.02

La storia antica e moderna insegna che la libertà di manifestazione del pensiero nella sua accezione più ampia è la prima ad essere travolta e soppressa all'indomani dell'instaurazione di ogni regime non democratico e la prima a comparire quando un popolo inizia il suo cammino verso la democrazia ed è per questo che la Corte costituzionale l'ha già da tempo definita "pietra angolare dell'ordine democratico".

Tale libertà consacrata per la prima volta in un testo di legge in Gran Bretagna nella Magna Charta del 1215 è stata poi sancita - con disposizione di straordinaria chiarezza - dall'articolo 11 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, secondo cui "la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo" e "ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente salvo a rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge".
La stessa libertà - a conferma della sua centralità in tutti gli ordinamenti democratici - è stata poi solennemente proclamata nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948 attraverso le previsioni degli articoli 18 e 19 secondo cui "ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione..." e "alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere".

Nell'ambito di tale libertà, il legislatore, la giurisprudenza e la dottrina si sono sempre preoccupati di mantenere nettamente distinta l'attività informativa svolta - in maniera "professionale" attraverso la stampa e gli altri mezzi di comunicazione di massa da ogni diversa forma di manifestazione del pensiero e ciò, evidentemente, in ragione della peculiare autorevolezza riconosciuta a tali fonti di informazione, suscettibili di ingenerare nel pubblico un più alto livello di affidamento.

Si è così creato - anche nel nostro Paese - un "doppio binario" nella disciplina dell'informazione che, sancito già dall'art. 21 della nostra Costituzione e poi consacrato all'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, approvata a Roma il 4 novembre 1950, è stato successivamente attuato, in Italia, attraverso tutta una serie di previsioni che vanno dalla legge n. 47 dell'8 febbraio 1948, approvata dalla stessa assemblea costituente, al recente "pasticcio" legislativo realizzato con la legge 7 marzo 2001 n. 62 con la quale si è tentato di modificare, ponendo in realtà in essere una maldestra operazione di ingegneria giuridica, la "disciplina delle imprese editrici di quotidiani e periodici" affidata alla legge 5 agosto 1981, n. 416 ed ai successivi interventi legislativi intervenuti in materia.

L'esistenza di questo "doppio binario" impedisce di affrontare congiuntamente le questioni legate alla disciplina ed all'esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e di "informazione professionale" e suggerisce di concentrare la nostra attenzione in questa sede solo sul primo di tali argomenti.

Ristretto così l'ambito di questo intervento, appare subito opportuno rilevare come nel quadro normativo che si è appena delineato, negli ultimi anni, abbia fatto irruzione Internet, straordinario strumento di comunicazione in grado di consentire ad un pubblico potenzialmente infinito ed eterogeneo per provenienza, etnia, cultura, religione e ceto sociale di appartenenza di diffondere informazioni e contenuti senza limiti né spaziali né temporali attraverso canali e con modalità quanto mai differenti e ben difficilmente riconducibili ad un insieme composito ed omogeneo (mail, mailing list, newsgroup, BBS, pagine web ecc.).

E' innegabile che la Rete - grazie anche alla facilità ed ai costi relativamente contenuti necessari ad accedervi - abbia accresciuto in maniera dirompente la concreta possibilità di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e costituisca uno strumento capace di amplificare in modo esponenziale la voce del singolo rendendola conoscibile alla collettività.
Ben difficilmente oggi, la Corte costituzionale potrebbe vedersi costretta ad affermare, come accaduto in passato, che "il diritto riconosciuto a tutti di manifestare liberamente il proprio pensiero con ogni mezzo non può voler dire che tutti debbano avere, in fatto, una materiale disponibilità di tutti i possibili mezzi di diffusione ma vuol dire, più realisticamente, che a tutti la legge deve garantire la giuridica possibilità di usarne o di accedervi con le modalità ed entro i limiti resi eventualmente necessari dalle particolari caratteristiche dei singoli mezzi o dalla esigenza di assicurare l'armonica coesistenza del pari diritto di ciascuno o dalla tutela di altri interessi costituzionalmente apprezzabili".

Non appare dunque azzardato affermare che ogni intervento volto a limitare o, comunque, rendere meno agevole ed immediato l'accesso ad Internet in assenza di concrete esigenze di tutela di predominanti interessi pubblici ed al di fuori dei limiti all'esercizio di tale libertà costituzionalmente individuati, rischia di porsi in aperto contrasto con l'art. 21 della Costituzione.
Sotto tale profilo non è condivisibile quella tendenza politico-legislativo che si registra anche nel nostro Paese, secondo la quale proprio la circostanza che Internet consenta al singolo di manifestare il proprio pensiero in modo più facile ed incisivo di quanto non fosse possibile ieri, giustificherebbe una più rigida disciplina e l'imposizione di più stringenti limiti e legacci all'esercizio della libertà di cui all'art. 21 della Carta costituzionale.

E' innegabile che Internet segni il passaggio da un sistema di comunicazione che potremmo definire autoritario - dall'alto verso il basso - quale quello dell'informazione tradizionale ad una nuova organizzazione già definita "a rete" nella quale l'informazione corre lungo canali trasversali ed orizzontali piuttosto che verticali: in Rete, ciascuno può creare e diffondere informazioni, idee ed opinioni senza necessità di interloquire con i cosiddetti "professionisti dell'informazione".
La paura del nuovo e forse la difficoltà del mondo politico ed economico di accettare che le regole dell'informazione e della circolazione delle idee e delle opinioni stiano rapidamente cambiando, tuttavia, non può giustificare forme di reazione che si pongono ai limiti dell'ordinamento giuridico e, forse, talvolta lo travalicano.

Egualmente non condivisibile è, d'altra parte, l'opinione di chi ritiene che Internet costituisca un mondo a sé nel quale principi, leggi e sanzioni operanti da decenni nel mondo reale non potrebbero trovare applicazione e che la Rete non possa e non debba tollerare ingerenze dovendo restare affidata al caos primordiale che ne ha contraddistinto le origini.
Percorrere questa strada significa continuare a rifiutare di accettare che la Rete è ormai entrata a far parte di quello che una volta veniva contrapposto al "ciberspazio" e definito "mondo reale", che attraverso Internet si concludono affari, si gestiscono relazioni personali, commerciali e governative, si diffondono notizie suscettibili di modificare il destino di colossi economici, nazioni e persone comuni e significa soprattutto non ammettere che - nell'attuale stadio del suo sviluppo - anche la Rete ha bisogno di regole certe e, forse, "universali".

In questo senso, convinzioni pure diffuse nel popolo della Rete, quale quella secondo cui le stesse opere dell'ingegno (musica, software, banche di dati) che se incorporate su un supporto hanno un prezzo, in Internet dovrebbero circolare gratuitamente o quella - altrettanto diffusa - secondo cui sarebbe lecito ed auspicabile continuare a consentire a chiunque di accedere alla Rete per diffondere contenuti, idee ed opinioni in forma totalmente anonima, non sembrano far bene alla Rete ed anzi, probabilmente, allontanano il giorno in cui sarà possibile iniziare ad investire seriamente in Internet capitali, idee e risorse umane.

Con particolare riferimento al problema del quale ci stiamo occupando, tali riflessioni, inducono a ritenere che le regole dell'informazione in Rete debbano essere ricercate nella realizzazione di un binomio giuridico indissolubile tra la libertà del singolo di manifestare il proprio pensiero e la propria opinione e la sua responsabilità per ogni eventuale abuso.
Si tratta, come si è detto, di una soluzione antica già consacrata nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 ma, ritengo ancora incredibilmente attuale.

In tale operazione, tuttavia, occorre tener conto anche degli obblighi e delle eventuali responsabilità da porre a carico degli intermediari della comunicazione (access provider, service provider, fornitori di hosting ecc.) poiché è evidente che tali scelte sono suscettibili di produrre riflessi immediati sulla concreta possibilità dei singoli di esercitare concretamente ed al riparo da ingerenze e censure la propria libertà di manifestazione del pensiero.
Non c'è dubbio, infatti, che chiamare un intermediario della comunicazione a rispondere dei contenuti diffusi attraverso la propria attività vuol dire autorizzarlo ed anzi obbligarlo ad esaminare preventivamente le informazioni che circolano sulle proprie macchine ed a valutare in maniera autonoma se ed in che misura ritenere leciti determinati contenuti; in assenza dell'imposizione di un simile obbligo di vigilanza, infatti, ogni forma di responsabilità avrebbe natura oggettiva e sarebbe perciò difficilmente conciliabile con i principi generali del nostro ordinamento specie in materia penale.

Non v'è chi non veda, tuttavia, che così facendo si corre il rischio di attribuire - sebbene indirettamente - ad un soggetto privato pericolosi poteri censori che, nell'attuale quadro costituzionale, lo stesso Stato può esercitare solo in casi del tutto eccezionali incorrendo altrimenti nel divieto di cui all'art. 21.
A ciò si aggiunga che tali soggetti - considerata l'enorme mole di dati che circola sulle proprie macchine - non sono tecnicamente in grado di compiere tali operazioni di monitoraggio e, comunque, non dispongono, certamente, delle competenze e conoscenze necessarie a distinguere ciò che è lecito - o ricorrendo particolari circostanze, deve essere ritenuto tale - è ciò che non lo è.

Quello del confine sottile tra libertà di manifestazione del pensiero, diffamazione, diritto di critica e di cronaca è un problema che da decenni impegna e divide fini giuristi, costituzionalisti, magistrati, avvocati, giornalisti ed uomini di cultura, la cui soluzione solo un legislatore miope o poco consapevole dell'importanza del nuovo media telematico, potrebbe rimettere ad un provider.
Del resto - muovendo proprio da tali considerazioni - la giurisprudenza italiana e straniera - sebbene ancora con taluni tentennamenti - è giunta ad escludere la responsabilità degli intermediari dell'informazione per i contenuti diffusi dai propri utenti, negando la possibilità di configurare a carico di tali soggetti un generico obbligo di controllo.

Si tratta della medesima conclusione cui è giunto anche il legislatore UE nella direttiva 31/2000 relativa a taluni aspetti del commercio elettronico imponendo agli Stati membri di escludere ogni responsabilità per il "semplice trasporto" (mere conduit), per la memorizzazione temporanea (caching) nonché per l'hosting.
Tali concetti che appaiono largamente condivisibili in linea di principio sollevano, tuttavia, non pochi dubbi e perplessità in riferimento alle specifiche modalità e termini con i quali essi appaiono destinati ad essere attuati nell'ordinamento italiano stando a quanto emerge dalla delega recentemente conferita dal parlamento al Governo nell'ambito della legge comunitaria 2001.

Il legislatore della legge delega, infatti, nel prevedere l'esonero da ogni responsabilità per l'intermediario delle comunicazioni - salvo nelle ipotesi in cui questi effettivamente al corrente dell'illiceità dei contenuti diffusi attraverso le proprie macchine o informato di ciò non si attivi per rimuoverle - non si preoccupa, in alcun modo, di chiarire quando un contenuto debba ritenersi illecito e conseguentemente quando il provider possa ritenersi obbligato ad intervenire incorrendo, in difetto, nelle responsabilità previste dalla legge.
Tale elemento se non dovesse essere chiarito neppure dal Governo in fase di attuazione della delega, rischia di produrre due ordini di conseguenze egualmente gravi ed inaccettabili:

  1. il provider, preoccupato di sottrarsi ad un'eventuale responsabilità, potrebbe essere spinto a cancellare o comunque ad oscurare determinati contenuti sulla base di una semplice segnalazione proveniente da un qualsiasi soggetto mosso, in ipotesi, dalla volontà di perseguire scopi e finalità che nulla hanno a che vedere con la liceità o meno di un determinato contenuto.
    In tal modo tuttavia si finisce con l'investire - sebbene indirettamente - un soggetto privato quale il provider di un potere censorio assolutamente incompatibile con la libertà di manifestazione del pensiero che non può restare subordinata all'arbitrio di questo o quell'intermediario della comunicazione né, tantomeno, al capriccio di chi, ad esempio, sentendosi ingiustamente offeso da certe affermazioni ritenga di farsi giustizia da solo chiedendo ed ottenendo dal provider la rimozione di tali affermazioni. E' dunque auspicabile che il Governo chiarisca tale aspetto precisando che l'obbligo dell'intermediario della comunicazione di attivarsi sorge solo ed esclusivamente a seguito di un provvedimento dell'autorità giudiziaria o di una segnalazione relativa a contenuti manifestamente illeciti (pedofilia, pornografia senza restrizioni per i minori ecc.).
  2. dinanzi all'invio di una segnalazione circa la presunta illiceità di determinati contenuti il provider verrebbe a trovarsi dinanzi a quello che è già stato definito "il dilemma dell'operatore": non rimuovere il contenuto segnalato come illecito ed esporsi così a possibili contestazioni e responsabilità nei confronti del segnalante o, comunque del soggetto leso da tale contenuto o decidere unilateralmente di procedere alla rimozione o all'oscuramento delle informazioni esponendosi così ad eventuali contestazioni da parte del titolare di dette informazioni specie nell'ipotesi in cui le stesse siano successivamente ritenute lecite all'esito di un giudizio?

Egualmente infelice ed ambigua appare la previsione pure contenuta nella legge delega secondo cui l'intermediario della comunicazione dovrebbe "comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l'identificazione dei destinatari dei loro servizi".
Anche al riguardo è auspicabile un puntuale intervento del Governo che chiarisca quali siano le informazioni relative all'identità del destinatario dei servizi che il prestatore è tenuto ad acquisire, conservare ed eventualmente comunicare alla competente autorità.
La circostanza che il legislatore delegante non abbia avvertito l'esigenza di porre a carico dei provider uno specifico obbligo di identificazione dei propri utenti, spinge a ritenere che dette informazioni continuino ad essere costituite - come peraltro già avviene nella prassi - dai soli file di log e non anche dall'identità fisica del destinatario dei servizi.

Se tale conclusione è corretta, tuttavia, ciò significa che il legislatore continua a ritenere lecito ed opportuno che ciascuno agisca in Rete non solo attraverso un'identità virtuale "fornitagli" dal provider in cambio della propria identità reale da rendere nota esclusivamente dietro richiesta della competente Autorità, ma anche attraverso il cosiddetto "anonimato assoluto", ovvero non essendo tenuti a svelare la propria effettiva identità neppure al soggetto che offre la connettività alla Rete.
Tale scelta non appare condivisibile anche alla luce di quanto si è andati dicendo circa l'esigenza - nell'attuale stadio di sviluppo della Rete - di regole certe e trasparenti.

Fino a quando in Rete sarà possibile agire in forma assolutamente anonima e, quindi, al riparo da ogni eventuale imputazione di responsabilità, internet continuerà a restare solo uno sconfinato campo da gioco ben difficilmente utilizzabile per concludere affari, dibattere questioni politiche, giuridiche o sociali o, anche, semplicemente allacciare relazioni personali.
L'idea dell'anonimato assoluto, ovvero della possibilità del singolo di manifestare liberamente il proprio pensiero senza farsi carico delle eventuali responsabilità che ne derivino, non ha nulla a che vedere con la libertà di manifestazione del pensiero sancita all'art. 21 della Costituzione.

L'ordinamento giuridico italiano, al pari di quello di molti altri Paesi democratici, riconosce a tutti i cittadini la libertà di manifestazione del proprio pensiero come forma di piena estrinsecazione e realizzazione della personalità del singolo e non già come licenza di offendere, vilipendere o, comunque, agire in modo illecito forti della copertura di una maschera che non può essere tirata via - complici i nuovi strumenti telematici - neppure dinanzi ad una precisa richiesta dell'autorità giudiziaria a seguito della commissione di un illecito.
 

* Avvocato, dottore di ricerca in informatica giuridica e diritto dell'informatica

 

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