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Sistema informazione

Che cosa c'è dietro il coro che piange il grande pifferaio

L'ultimo capolavoro mediatico di Steve Jobs

Il cordoglio dilaga sui media e si risolve in una campagna pubblicitaria di dimensioni planetarie. Per prodotti inutilmente costosi, status symbol per una setta esclusiva di adepti inconsolabili. Un genio? Sì, della comunicazione.

11.10.11

C'è qualcosa di surreale nella campagna planetaria di cordoglio per la scomparsa di Steve Jobs. Sembra che la morte del co-fondatore di un'azienda informatica costituisca un lutto irreparabile per la storia dell'umanità. "Il genio visionario che ha inventato i prodotti più innovativi", "l'uomo che ha cambiato il nostro mondo" (o "la nostra vita", a scelta) e via alternando i toni del dolore con quelli dell'ammirazione sconfinata.

Fino a "Steve Jobs è immortale" (qui). Risposta scontata all'unica voce fuori dal coro, deprecata con unanime sdegno: quella, altrettanto scontata, del solito Richard Stallman. Che scrive "Non sono lieto che sia morto, sono lieto che se ne sia andato". Il solito Stallman, che non perde l'occasione per cantare un'altra partitura. Così si dimostra che non ha capito niente e l'intonazione del coro risulta perfetta.

Ora chiediamoci quanto sarebbe costata una campagna pubblicitaria di queste dimensioni per il marchio di Cupertino. Una cifra da capogiro. Ma editori e giornalisti si rendono conto di confezionare "redazionali" gratis su scala industriale? Come quando i media di tutto il mondo ci raccontano di schiere di ragazzi che si mettono in fila a notte fonda per acquistare "per primi" l'ultimo inutile gadget inventato da Apple (o da Microsoft, è lo stesso). E' pura pubblicità mascherata da notizia. Che sfrutta la quota di imbecillità sempre presente in ogni contesto sociale. E la fa diventare "tendenza". 

Ecco: la scomparsa di Steve Jobs è l'ultimo suo capolavoro mediatico. Preparata con sapiente gradualità, come lo stillicidio di indiscrezioni sul prossimo lancio di un nuovo prodotto. Non vorrei apparire più cinico di quanto sono: mi limito a mettere in fila le notizie, come dovrebbe fare qualsiasi giornalista che non abbia portato il cervello all'ammasso.

Perché Jobs era sì un genio, ma solo del marketing e della comunicazione. Un pifferaio magico di straordinaria abilità. I suoi prodotti e le sue strategie valevano - valgono - nella misura in cui erano - sono - funzionali alla creazione di un mercato particolare, un segmento abbastanza grande da assicurare profitti colossali su prodotti venduti a prezzi esagerati. Un Macintosh fa le stesse cose di un PC, ma costa almeno il doppio.

Però è uno status symbol, qualcosa di esclusivo che può essere capito solo dagli adepti. Proviamo a osservare con occhio disincantato il mondo della mela morsicata (prima geniale intuizione comunicativa!): è un mondo limitato, chiuso a doppia mandata, con pochi contatti con l'esterno. Gli adepti si ritengono superiori al resto dell'umanità e non perdono l'occasione per fare proseliti. Il mantra più comune è della serie "ti si è inchiodato il PC? Se tu avessi un Macintosh...".
Hanno una fiducia incrollabile nel Capo. Fino a dichiararlo immortale. Insomma, una setta.

Già. In fondo Steve Jobs era il capo di una setta. Con una sola nota personale diversa rispetto ai capi di milioni di altre sette: non faceva derivare il proprio carisma direttamente da un dio, o da un santone di livello superiore in diretta comunicazione con un dio.
Non aveva bisogno di un dio, perché era buddista.

Sul walled garden, sull'incomunicabilità del mondo Apple con i mondi aperti e liberi delle tecnologie scrive qui Andrea Monti. Non mi pare che ci sia altro da aggiungere.

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