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Sistema informazione

Bestiario della comunicazione nell'ultima campagna elettorale

Elezioni, il giaguaro e il caimano ringraziano

Le elezioni politiche di una settimana fa hanno dimostrato ancora una volta come l'uso accorto della comunicazione faccia la differenza nelle campagne elettorali. C'è la Rete, ci sono le piazze, ma chi vince è la televisione.

04.03.13

E' passata una settimana dalle elezioni. Il quadro della politica italiana è cambiato in misura così radicale che nessuno ci capisce niente, neanche i politici che lo hanno determinato.
Il voto dei cittadini è il risultato di un ampio sistema di comunicazione, che si svolge su tempi lunghi e ha il suo punto di maggiore intensità nel periodo della campagna elettorale.

La decisione dell'elettore è influenzata della somma dei messaggi che ha ricevuto dalla politica, confrontata con la sua personale visione del contesto in cui vive.

Di solito la campagna elettorale determina il voto in misura relativa, perché pesano di più le informazioni e le suggestioni ricevute nel medio o lungo periodo, che hanno avuto il tempo di sedimentare. Ma questa volta le elezioni si sono svolte in un clima di grande incertezza e con toni molto accesi. Una semplice lettura dei sondaggi fa capire che il voto è stato in buona parte influenzato dalla comunicazione delle ultime settimane, provocando il cambiamento che è sotto i nostri occhi, imprevedibile solo pochi mesi fa.

Dunque può essere utile analizzare, a grandi linee, la comunicazione che è stata indirizzata ai cittadini durante la campagna elettorale. Naturalmente in questa sede dobbiamo limitarci a pochi aspetti significativi, esaminando i messaggi elettorali lanciati dalle formazioni che hanno proposto un candidato alla conduzione del governo.

Punto di partenza. Martedì 26 febbraio, il giorno dopo il voto, ascoltavo Dario Fo, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7.
Parlava di Beppe Grillo, al quale aveva dato il suo sostegno. E quasi quasi mi faceva pentire di non averlo votato. Perché un comunicatore come Dario Fo può convincere anche i sassi a farsi preti. Beppe Grillo gli va molto vicino. Tutti e due sono maestri nella più antica e nobile forma di comunicazione di massa: il teatro.

Ne parliamo più avanti. Prima liberiamo il campo dai "perdenti assoluti". L'ultimo nella graduatoria dei voti è Oscar Giannino. Come si chiamava il suo partito? Ah sì: "Fare per fermare il declino", mi sembra. Già il nome è una somma di errori di comunicazione: 1. Troppo lungo. 2. Difficile da ricordare. 3. Impronunciabile in forma di sigla o acronimo. 4. Su tre parole-chiave, ce ne sono due con una connotazione negativa ("fermare" e "declino"): il senso subliminale della frase può far pensare una marcia indietro. Risultato elettorale conseguente, con l'aggiunta che il costume da pagliaccio fa ridere solo i bambini.

Poi c'era Antonio Ingroia  con la sua "Rivoluzione civile". Certo, quando si punta all'estrema sinistra, la parola "rivoluzione" fa effetto. Ma l'aggettivo "civile", messo lì forse per attirare qualche benpensante, annulla il sostantivo con un'evidente contraddizione semantica. Dunque sul piano emotivo l'impatto del nome del partito è stato probabilmente nullo. 
Quanto alla capacità di comunicare del leader... beh, Maurizio Crozza che lo imitava era molto, molto più efficace. Ingroia avrebbe fatto meglio a mandare avanti Di Pietro, con la carica della sua impetuosa comunicativa terra-terra.

Mario Monti è un caso da studiare nei corsi di comunicazione. Del tutto incapace di comunicare di suo, si è rivolto a un acclamato spin doctor, David Axelrod, il presunto guru della comunicazione al quale si attribuisce (erroneamente?) il successo elettorale di Barak Obama. Il sapientone ha "toppato" miseramente sui primi due punti di qualsiasi strategia di acquisizione del consenso: la conoscenza del contesto e del target e il rinforzo dell'immagine positiva già propria del candidato. Risultato devastante, con scene pietose come quella della cagnolina.

Dalla cagnolina al giaguaro, la bestia più maltrattata della campagna elettorale. "Smacchiare il giaguaro" era una delle metafore del leader del PD per dire "non perdiamo tempo in cose inutili". All'improvviso l'immagine ha cambiato segno, diventando un obiettivo da conseguire. Forse un errore imperdonabile sul piano subliminale. Ma il punto è un altro.

Pierluigi Bersani, come tutta la sinistra (o centrosinistra che dir si voglia) non ha capito nulla della comunicazione di oggi. Dove vince prima di tutto una faccia, un'immagine, un leader. L'idea che "il collettivo" possa fare premio sul singolo risale a un'altra epoca e forse non era tanto efficace neanche allora. Quello che conta è far sognare l'elettorato, anche con promesse che non si possono mantenere, lanciare messaggi forti, che scuotano le coscienze.

La ciliegina sulla torta è stata la scelta di Nanni Moretti come supporto dell'ultima ora: Moretti è un campione di antipatia, quanto Dario Fo lo è di simpatia. Come testimonial il grande regista è stato meno efficace della cagnetta di Monti (che però è molto più tenera). Conclusione: il giaguaro ha mantenuto le sue belle macchie e la vera belva che doveva essere neutralizzata ha potuto tranquillamente acchiappare le sue prede.

Sto parlano del caimano, naturalmente. Che ha compiuto una straordinaria rimonta sfruttando due grandi doti: la padronanza del mezzo televisivo e la capacità di indurre immagini "forti" con ogni mezzo, anche con panzane incredibili.
Anche in Berlusconi c'è una scuola di teatro. Quel teatro minore che è l'intrattenimento nei villaggi vacanze e sulle navi da crociera. Ma che in ogni caso insegna a sintonizzarsi sull'umore del pubblico, a trovare toni e tempi della battuta a effetto. 

Grillo è stato il più furbo nell'uso della televisione, che rimane di gran lunga il mezzo più importante. Ha rifiutato di comparire nelle trasmissioni in studio, ben sapendo che le regole sulla par condicio, formali e sostanziali, gli avrebbero comunque assicurato un "tempo di antenna" paragonabile a quello degli altri candidati. Infatti le televisioni non hanno potuto fare altro che rilanciare i proclami lanciati nelle piazze reali e telematiche. Così ha fatto passare la sua faccia, la sua oratoria e i suoi messaggi, ma si è sottratto a qualsiasi pericoloso contraddittorio.

Di Grillo deve essere valutata anche la falsa idiosincrasia per i giornalisti. Ne ha bisogno, perché la politica non esiste senza l'informazione. L'abilità è far dire all'informazione quello che si vuole far sapere, costringerla a fare da amplificatore di proclami e frasi a effetto.
E' significativa la scelta di non parlare con i giornalisti italiani, rilasciando però interviste alla stampa estera. Che, aggiunta ora al divieto per gli eletti di apparire nei talk show e di rilasciare interviste, rivela la strategia del leader: impugnare un megafono, senza dare possibilità di risposta. La domanda è se questa tecnica reggerà nel tempo, se "la base" continuerà a lasciarsi manipolare.

Anche Berlusconi ha evitato i confronti diretti con i suoi avversari, forte della sua capacità di usare il messaggio televisivo. Capacità tale da spiazzare anche due vecchie volpi della TV come Michele Santoro e Marco Travaglio, nella puntata di Servizio pubblico che ha segnato il vero inizio della sua rimonta.

Alla fine dei conti, hanno "vinto senza arrivare primi" i due candidati che, in un modo o nell'altro, hanno fatto sognare gli elettori. E' arrivato "primo senza vincere" quello che ha ritenuto che la sola forza della ragione potesse convincere i cittadini, senza cercare di raggiungere il cuore - o la pancia - di chi stava per deporre la scheda nell'urna. Di fatto ha perso, ha perso una larga fetta del suo elettorato potenziale. E solo per aver sbagliato temi e modi della comunicazione.

Alla fine hanno vinto un grillo e un caimano. Il giaguaro l'ha scampata. E' la democrazia, bellezza.

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