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Sistema informazione

Ma i ministri hanno letto il DDL sull'editoria?

di Daniele Coliva* - 23.10.07
Da una parte "la piazza" che si solleva contro un disegno di legge liberticida, anche se non ne coglie del tutto la portata. Dall'altra un governo che legifera a vanvera delega a terzi la scrittura di norme di grande rilevanza.
La vicenda del disegno di legge sull’editoria ha dimostrato, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la capacità di aggregazione e di pressione che il meccanismo dell’internet consente. Certo, non sempre la piazza ha ragione, ma nel caso di specie è dalla parte del giusto, anche se in questo caso non coglie appieno i difetti della proposta normativa (vedi Editoria: fermare la riforma che non piace a nessuno di Manlio Cammarata).

I fatti sono noti: il Consiglio dei Ministri approva il disegno di legge di riforma dell’editoria che ridefinisce i concetti normativi di prodotto ed attività editoriale. Sul primo si è scatenata la polemica, in quanto all’art. 2 si definisce prodotto editoriale “qualsiasi prodotto contraddistinto da finalità di informazione, di formazione, di divulgazione, di intrattenimento, che sia destinato alla pubblicazione, quali che siano la forma nella quale esso è realizzato e il mezzo con il quale esso viene diffuso”, con esclusione di quelli destinati alla sola informazione aziendale, interna e rivolta al pubblico.
Il senso letterale della disposizione, applicata all’internet, è chiarissimo: qualsiasi sito web avente contenuto informativo, divulgativo o istruttivo è prodotto editoriale, ad eccezione dei siti aziendali (quindi anche con finalità pubblicitarie).

L’art. 5 del DDL chiude il cerchio per così dire, dal momento che se esiste un prodotto, esiste anche un’attività volta alla sua creazione e distribuzione: “Per attività editoriale si intende ogni attività diretta alla realizzazione e distribuzione di prodotti editoriali, nonché alla relativa raccolta pubblicitaria. L’esercizio dell’attività editoriale può essere svolto anche in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative”.
Questa norma va poi collegata, ed è questa la pietra dello scandalo, al successivo art. 6 che impone a chi eserciti attività editoriale l’iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC), presso l’Autorità garante delle comunicazioni.

La sequenza logica è chiara, e i relativi sillogismi molto semplici da costruire: la conclusione è che l’autore/produttore di un prodotto editoriale, anche se non a fine di lucro, è obbligato all’iscrizione al ROC.
L’impatto è evidente. Se in precedenza occorreva l’iscrizione al registro della stampa presso il Tribunale, con obbligo di un professionista abilitato quale direttore responsabile, solo per le pubblicazioni periodiche, e quindi con una caratteristica presuntiva di professionalità, da intendersi anche come sinonimo di imprenditorialità, con il DDL in questione si passa ad un regime generalizzato di iscrizione (o schedatura?), che include anche il “povero” blogger che tenga un semplice diario personale sulla rete da condividere con amici e non.

L’amplissima portata dell’obbligo di registrazione collide a prima vista con le finalità generali proclamate all’art. 1 del medesimo DDL, di tutela e promozione del principio di libera informazione di cui all’art. 21 della Costituzione, e, soprattutto, con il secondo comma, nel quale si afferma che la disciplina prevista dal ddl “…mira all’arricchimento della produzione e della circolazione dei prodotti editoriali, allo sviluppo delle imprese e del settore editoriale in conformità ai principi della concorrenza e del pluralismo, al sostegno all’innovazione e all’occupazione, alla razionalizzazione e alla trasparenza delle provvidenze pubbliche…”. Finalità alquanto encomiabile, ma perché all’art. 5 si include nell’attività editoriale anche quella svolta in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative?

Svista? Eccesso di zelo?

La risposta del ministro Gentiloni è estremamente insoddisfacente: “…va corretto perché la norma sulla registrazione dei siti internet non è chiara e lascia spazio a interpretazioni assurde e restrittive…”.
Signor Ministro, la norma, anzi le norme sono chiarissime e non lasciano spazio ad alcuna interpretazione assurda e restrittiva, è il concetto espresso dalla norma ad essere assurdamente restrittivo e contrario alla premessa di ossequio all’art. 21 della Costituzione. Tralasciamo il fatto che il DDL non sia stato riletto durante il Consiglio dei ministri, tuttavia rimane l’interrogativo del perché, e dove sia stato divisato questo obbligo generale di registrazione. Questa è la domanda che merita una risposta, e ad oggi ci sono state solo giustificazioni ben poco credibili.

Non basta.

Vi è un altro aspetto del DDL che merita una riflessione. All’art. 6, comma 4, si demanda all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni l’adozione di un regolamento (cioè un atto amministrativo) che riguarda non solo l’organizzazione e la tenuta del ROC, ma anche “la definizione dei criteri di individuazione dei soggetti e delle imprese tenuti all'iscrizione, ai sensi della presente legge”.
E’ un altro esempio della scarsa capacità di formulazione di leggi che siano in grado di camminare con le loro gambe; occorre sempre un regolamento di attuazione, una circolare. Nel caso di specie, tuttavia, la “protesi” regolamentare va oltre la sua funzione, in quanto rimette ad una autorità amministrativa, ancorché indipendente e di garanzia, la previsione del filtro di accesso al ROC, in presenza della disposizione del primo comma dell’art. 6, che con estrema chiarezza afferma che tutti i soggetti che esercitano l’attività editoriale sono tenuti all’iscrizione nel ROC.

Sul punto sorprendono nuovamente le dichiarazioni del sottosegretario Franco Levi in risposta alla domanda se anche Grillo dovrà sottostare alla iscrizione al ROC: “Non spetta al governo stabilirlo. Sarà l'Autorità per le Comunicazioni a indicare, con un suo regolamento, quali soggetti e quali imprese siano tenute davvero alla registrazione. E il regolamento arriverà solo dopo che la legge sarà stata discussa e approvata dalle Camere”.
L’impressione è che nemmeno il sottosegretario Levi, al pari del ministro Gentiloni, abbia letto il DDL, altrimenti non avrebbe fatto un’affermazione così inesatta, dal momento che l’obbligo di iscrizione al ROC anche per Grillo sta chiaramente scritto nel testo della legge. E, come si sa, in claris non fit interpretatio.

Peraltro, il sottosegretario Levi ha detto una cosa esatta, e cioè che non spetta al governo stabilire l’estensione dell’obbligo di registrazione. Solo la legge, infatti, deve, in una democrazia, prevedere obblighi o filtri all’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, non il governo né, tanto meno, un’autorità amministrativa con un provvedimento unilaterale e adottato al di fuori del Parlamento.

E’ anche opportuna una considerazione pratica: l’attuale struttura di gestione del ROC sarebbe in grado di sopportare l’impatto dell’enorme quantità di richieste di iscrizione qualora fosse adottata la disciplina del DDL? In proposito è utile rammentare quanto accadde in relazione alla notificazione dei trattamenti di dati personali prevista dal testo originario della l. 675/96. In un primo momento l’obbligo di notificazione era generalizzato, poi, resisi conto della pratica ingestibilità (e conseguente inutilità) di centinaia di migliaia di notificazioni, l’obbligo fu man mano ristretto, trasformandolo da regola in eccezione. Per farlo, però, fu cambiata la legge.

Mai come su diritti delicati e fondamentali come questi è doveroso che sia la legge a disporre, senza deleghe esplicite od implicite a terzi, anche se qualificati.
 

* Avvocato in Bologna

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