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Sistema informazione

In piazza per il Diritto di sapere e il Dovere di informare

La libertà di stampare non è "libertà di stampa"

Saremo in tanti oggi, a Roma e in altre città, a manifestare in difesa della libertà di informazione. Chiedendo che i giornalisti con la schiena dritta non siano definiti "farabutti" e che gli altri si ricordino del dovere di informare.
3 ottobre 2009
Il simpatico faccione di Paolo Bonaiuti era molto convincente, pochi giorni fa a il Caffè di RaiNews24. Ci spiegava come basti andare all'edicola e contare il numero di quotidiani e riviste che si pubblicano in Italia, o accendere la televisione e vedere quante emittenti si possono ricevere. Per concludere che nel nostro Paese c'è libertà di stampa. E di televisione.
Allora perché il sindacato dei giornalisti ha indetto una grande manifestazione di piazza, perché quasi mezzo milione di 
persone ha firmato un appello, perché si sono mobilitati intellettuali di tutto il mondo per protestare contro la mancanza di libertà di espressione in Italia?
Ha davvero ragione il signore delle televisioni quando sbraita che la manifestazione di oggi è una farsa?
Lo slogan "Diritto di sapere, dovere di informare" centra perfettamente la sostanza del problema.

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In Italia c'è il diritto di stampare. Con qualche limite, però, dettato da una legge del 1948 sull'ordinamento della stampa e da una del 1963 su quello della professione di giornalista (siamo l'unica nazione democratica in cui fare il giornalista senza avere una tessera di Stato costituisce reato). Ma libertà di stampare non significa libertà di stampa, se i giornalisti sono sottoposti a ricatti e limitazioni. O inquadrati, disciplinatamente, nel sistema del potere mediatico.

In Italia la libertà di televisione, semplicemente, non c'è. Lo prova con assoluta evidenza la vicenda di Europa 7. All'unica emittente che potrebbe fare un'informazione non condizionata dal potere si impedisce di trasmettere. Da dieci anni, in spregio di tutte le sentenze della Corte costituzionale e dell'Unione europea.

Dati incontestabili mostrano che il 70 per cento degli italiani si informa solo attraverso la televisione. Ma il 90 per cento del sistema televisivo è nelle mani di una sola persona, perché ha il controllo da proprietario delle tre più importanti reti private e da capo del governo delle tre reti pubbliche. Grazie a una legge, la vergognosa Gasparri, scritta in totale dispregio delle sentenze della Corte costituzionale. Nelle tre reti pubbliche sopravvivono piccoli spazi di informazione indipendente, che fanno gridare il Capo "la Rai è contro di me" e insultare i giornalisti: "farabutti!".

La censura nell'informazione televisiva è evidente, palpabile. Basta avere la pazienza di vedere, una sera qualsiasi, il TG3 dell 19 (quello dei farabutti). E poi il TG1 delle 20. E constatare quante notizie sono sparite o rese incomprensibili nel giro di un'ora. Troppe volte il notiziario più seguito e più influente sull'opinione pubblica non osserva il "dovere di informare" e calpesta il "diritto di sapere" dei cittadini.
Solo così si possono spiegare le percentuali di consenso che i sondaggi periodicamente attribuiscono al Capo: numeri vicini a quello degli italiani che dichiarano di informarsi solo attraverso la televisione.

Qualcuno dirà: ma ci sono i giornali farabutti, quelli che fanno domande così impertinenti da essere citati in tribunale. Il fatto è che meno del 10 per cento degli italiani legge i giornali. Che non sono tutti scritti da farabutti. Ma che nessuno pensa di trascinare davanti a un giudice perché scrivono falsità. Un solo esempio, recentissimo. Ieri il Giornale (la cui proprietà fa capo alla famiglia del Presidente del consiglio) riportava con grande evidenza in prima pagina una notizia: Carl Bernstein (il giornalista premio Pulitzer, quello che con Bob Woodward costrinse il Presidente Nixon alle dimissioni per il caso Watergate) avrebbe detto ad Annozero di giovedì scorso che "i politici hanno diritto alla privacy".

Falso. Gli oltre sette milioni di italiani che hanno seguito la trasmissione, hanno sentito con le loro orecchie che Bernstein ha detto il contrario: "La stampa ha il dovere legittimo di accertare il vero se ci sono evidenti verità nelle accuse contro un Capo di Stato o un premier. E' stato il caso di Monica Lewinsky nei confronti di Clinton ed è il caso che riguarda oggi Berlusconi". Ma nessuno ha dato del farabutto al direttore del Giornale, forse perché chi lo legge non guarda il programma di Michele Santoro.

Un altro esempio, piccolo piccolo. Qualche giorno fa, alla fine di una conferenza stampa, il Presidente del consiglio ha intimato ai giornalisti presenti: "Non mi potete più fare domande in materia di gossip". Questa è la concezione assolutistica, non democratica del potere. Perché in una democrazia i giornalisti hanno il diritto di fare tutte le domande che vogliono. Se mai l'interrogato può rifiutarsi di rispondere, subendone le conseguenze. Ma non risulta che qualcuno dei giornalisti presenti abbia replicato affermando "il diritto di sapere, il dovere di informare".

Ecco perché ieri Jean-Francois Julliard, segretario generale di Reporters Sans Frontières ha detto che "probabilmente l'Unione europea voterà nei prossimi giorni una risoluzione sulla situazione della libertà di stampa in Italia, e non è consueto che si debba occupare di un tema di questo genere per un paese membro". E ha avvertito che nel prossimo Indice della libertà di stampa (pubblicato annualmente da Reporters sans frontières) "l’Italia, che era quarantatreesima, non guadagnerà certo posizioni e rischia di essere la nazione dell’Unione europea con il posto più basso in classifica".

Ha scritto Roberto Saviano: "Oggi, chiunque decida di prendere una posizione sa che potrà avere contro non un'opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime. E persino coloro che hanno firmato un appello per la libertà di informazione devono mettere in conto che già soltanto questo gesto potrebbe avere ripercussioni. Qualsiasi voce critica sa di potersi aspettare ritorsioni. Libertà di stampa significa libertà di non avere la vita distrutta, di non dover dare le dimissioni, di non veder da un giorno all'altro troncato un percorso professionale per un atto di parola, come è accaduto a Dino Boffo".

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