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Professione giornalista

Richiamare "all'Ordine" la libera informazione?

18.05.2000
 

Botta e risposta: "Con internet vanno in crisi i mestieri. Pensate come, grazie a Dio, andrà in crisi il mestiere di giornalista... la professione sarà regolata dalla competenza e non dalla tutela". Detto in faccia ai giornalisti da Pierluigi Celli, direttore generale della Rai, in aprile.
"Sorgono di continuo una miriade di siti, spesso anonimi, che diffondono notizie senza il minimo controllo. Avanti di questo passo non si può andare". E Bruno Tucci, presidente dell'Ordine dei giornalisti di Lazio e Molise, chiede al Ministro della giustizia "regole che risolvano al più presto il problema" (vedi Punto Informatico). Cioè, sembra di capire, regole che in qualche modo vietino di fare informazione a chi non è iscritto all'Ordine.

Il problema è serio, e deve essere affrontato tenendo conto di molti aspetti che non è facile conciliare. Per la serie "Processo ai mass media", questo è un altro contributo di InterLex alla sessione conclusiva del convegno La democrazia nell'era della CNN che si terrà a Padova dal 25 al 27 di questo mese.

La polemica, che va avanti da anni, riguarda soprattutto l'Ordine dei giornalisti, per la cui abolizione fu addirittura proposto un referendum, e che dovrebbe essere riformato da una legge che da tempo immemorabile naviga senza rotta nelle aule parlamentari. Tuttavia il nocciolo della questione non è nella scelta tra un "sì", un "no" o un "ma" all'esistenza di quella che di fatto è una vera corporazione, come dimostra l'intervento di Tucci.
Il problema è espresso da un bisticcio di parole: l'informazione nella società dell'informazione. Dove il primo termine, "informazione" in senso stretto, è una parte rilevante del traffico di "informazioni", in senso lato, che costituisce la linfa vitale del nostro tempo e del prevedibile futuro.

Prima dell'avvento della Rete, l'informazione (ci riferiamo, naturalmente, all'informazione in senso stretto) era quasi esclusivamente di matrice professionale e "a senso unico". Con la diffusione dell'internet, ancora prima del World Wide Web, ha incominciato ad affermarsi su scala sempre più vasta un'informazione spontanea e "a doppio senso", perché i ruoli di fornitori e di destinatari delle notizie si scambiano continuamente, fino a giustificare in molti casi la definizione di "comunicazione interattiva".
E un fatto che oggi sulla Rete si trovano sia l'informazione professionale, ancora quasi esclusivamente a senso unico, sia l'informazione spontanea, almeno potenzialmente interattiva.

Ora si tratta di capire le implicazioni di questa realtà. Ma prima è necessario mettere a fuoco il quadro generale, nel quale non è possibile né utile fare distinzioni tra media tradizionali e "new media". L'informazione è sempre più un crogiuolo in cui si fondono mezzi, notizie e commenti, un universo di notizie che capovolge la vecchia definizione di McLuhan "il mezzo è il messaggio", perché rende il mezzo spesso indifferente o intercambiabile rispetto al messaggio.
E' vero che l'informazione tradizionale - giornali, radio, TV - è sostanzialmente di tipo professionale, ma questo dipende semplicemente dal fatto che in essa non ci sono gli né spazi né le opportunità di accesso per l'informazione spontanea.

Ma qual è, o quale dovrebbe essere, la differenza tra l'informazione spontanea e quella professionale, anche tenendo conto del fatto che in molti casi è difficile da identificare il confine?
L'informazione spontanea non ha altro punto di riferimento che la libertà di espressione, quella sancita dall'articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, in Italia dall'articolo 21 della Costituzione e negli USA dal Primo Emendamento della Costituzione (per citare solo i fondamenti più significativi).
Da questa premessa discende l'impossibilità - oltre che l'inopportunità - di porre alcun vincolo, alcuna regola, alcun requisito all'informazione spontanea. Tranne che nei casi - è ovvio - in cui con l'informazione si commettano atti illeciti. Qui si chiude il discorso, anche perché qualsiasi tentativo di introdurre limiti, distinzioni, o regole di qualsiasi genere si scontrerebbe con la natura stessa della Rete.

L'informazione professionale è tutt'altra cosa. E' regolata da leggi, codici, regole scritte e non scritte. Fare informazione avendo una tessera, o un "distintivo", o un contratto, un elemento qualsiasi che qualifichi l'attività come "professionale", significa saper trovare le notizie, cercare di capirle, cercare le conferme, seguire e approfondire i fatti, interpretarli, raccontarli e commentarli in forma chiara e corretta, avendo la consapevolezza degli effetti che l'informazione può avere sul pubblico. Dunque fare informazione come attività professionale significa assumersi la responsabilità di fornire in modo chiaro informazioni corrette, verificate, interessanti e comprensibili.
L'informazione professionale, oggi in Italia, soddisfa questi requisiti? La risposta è un secco "no".

Più volte in queste pagine abbiamo rilevato l'incompletezza, l'inesattezza, la tendenziosità dell'informazione tradizionale nei confronti della Rete, ma si potrebbero fare moltissimi esempi in settori diversi.
Ecco un caso, banalissimo,  che dimostra la scarsa qualità dell'informazione "professionale": quando vengono diffuse le cifre dell'inflazione mensile, se l'indice è più basso di quello del mese precedente, la televisione ci informa regolarmente del fatto che "diminuisce il costo della vita". E non è vero, come chiunque può constatare, perché in realtà "diminuisce l'aumento". Dopo di che il solerte cronista ci informa che, in seguito alla variazione dell'indice "la città più cara" è Trieste, oppure Milano o un'altra. Notizia falsa, perché a Trieste, a Milano o altrove si è solo verificato l'aumento più significativo rispetto al mese precedente e in queste città il costo della vita potrebbe essere più basso che in altre.

Dunque non è vero che, come afferma Tucci, solo la libera informazione on line è inattendibile, "senza il minimo controllo". C'è buona e  c'è cattiva informazione, on line e off line, e non è la tessera che aiuta a distinguere l'una dall'altra.
Nella piattaforma per il rinnovo del contratto di lavoro dei giornalisti, proposta dalla Federazione nazionale della stampa (FNSI, il sindacato dei giornalisti), si legge:

Le Federazioni contraenti (la FNSI e la Federazione degli editori, ndr), prendendo atto della oggettiva complessità rappresentata dall’insieme delle innovazioni tecnologiche collegate alla rivoluzione digitale ed alla espansione incontrollata delle reti, consapevoli dell’impatto e dei rischi che da queste possono derivare sui profili della qualità e della certa identificazione dei prodotti giornalistici e di informazione, si impegnano a concordare entro un anno dall’entrata in vigore del presente contratto, pur nel rispetto delle rispettive competenze e responsabilità, metodi e strumenti finalizzati a garantire i lettori-utenti circa la titolarità e l’origine-fonte dei prodotti informativi.
In particolare è istituita, entro un anno dall’entrata in vigore del presente contratto, una commissione paritetica Fieg-Fnsi per l’attribuzione di un "pressmark" ai nuovi media di carattere giornalistico, al fine di distinguerli con chiarezza – a garanzia dell’utente – dalla generalità delle iniziative presenti sul mercato e nel sistema delle telecomunicazioni. Detta Commissione si occuperà anche di verificare periodicamente il rispetto delle norme esistenti nelle realtà produttive. Prenderà inoltre in esame problemi di interpretazione delle norme contrattuali che dovessero presentarsi a causa di ulteriori e non prevedibili sviluppi dei mezzi tecnologici.

Dunque si propone di istituire un "marchio di qualità" per l'informazione in rete. Ammesso e non concesso che sia realizzabile senza intaccare la libertà della comunicazione, potrebbe forse avere qualche utilità se:
a) fosse applicato anche all'informazione off-line, cioè ai giornali, alle televisioni eccetera;
b) la valutazione fosse affidata a un organismo indipendente.
Invece le due corporazioni, quella dei giornalisti e quella degli editori, pretendono di essere loro a decidere qual è l'informazione "buona" e qual è quella "cattiva". E va da sé che per "buona" intendono quella tesserata... E' immaginabile il "bollino" applicato a un sito informativo che non sia fatto da giornalisti iscritti all'Ordine, con una testata non iscritta nei registri della stampa?

L'Ordine e il sindacato dovrebbero preoccuparsi prima di tutto della qualità dell'informazione prodotta dai loro iscritti. Se il problema è quello dei "profili della qualità e della certa identificazione dei prodotti giornalistici e di informazione", la ragione non è nella "oggettiva complessità rappresentata dall’insieme delle innovazioni tecnologiche collegate alla rivoluzione digitale ed alla espansione incontrollata delle reti".
E' vero che l'informazione in rete che si presenta con tutte le carte in regola per essere qualificata "testata giornalistica" ai sensi delle (vecchie e inadeguate) leggi vigenti offre qualche garanzia in più, se non altro a livello di responsabilità e di rispetto delle regole. Ma questo non significa che l'informazione spontanea non possa essere ancora più seria e credibile: alla lunga è il pubblico che decide e attribuisce il vero marchio di qualità all'informazione che lo merita.

Si deve tener presente un fatto importante: contestare o solo precisare una notizia inesatta, superficiale o inutilmente sensazionalistica, pubblicata dai media tradizionali, è molto difficile, spesso impossibile. Invece sull'internet chi dà informazioni false o inesatte viene contestato e magari sbeffeggiato, proprio per la facilità di accesso e di diffusione delle idee che è nella natura della Rete. 
Basta questa constatazione per concludere che l'informazione spontanea può essere migliore di quella cosiddetta professionale. Di conseguenza, le corporazioni dei professionisti o cambiano la loro visione del mondo o possono chiudere.

Per chi, come l'autore di queste note, ha da ventisette anni in tasca la "tessera" (ma come giornalista di serie B, il pubblicista, che per legge è un giornalista "a tempo perso") può essere difficile ammettere che in fondo Pierluigi Celli ha ragione. Ma è così: non si può "richiamare all'Ordine" la libera informazione.

MCr

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